Quando ero piccola giocavo a catturare le lucertole.
Mi divertivo a rincorrerle, farle prigioniere, tenerle ferme e poi infilzarle con un legnetto. Mentre mi impegnavo in questa operazione canticchiavo sottovoce: “Questa é la storia del serpente che vien giù dal monte, per ritrovare la sua coda che ha perso un dì…”
I bambini sanno essere meschini. Non riuscivo a resistere, dopo averla acchiappata guardavo la coda dimenarsi e contorcersi disperatamente in cerca della propria metà, provando una sensazione di potere mista ad un latente senso di colpa, a cui chiaramente non sapevo dare un nome. Era come se pensassi che tutti mi vedevano piccola ma io potevo staccare la coda alle lucertole, mi compiacevo di questo pensiero e allo stesso tempo, in fondo allo stomaco, mi pizzicava l’idea che non avessi alcun diritto di amputare una parte così importante per quel piccolo animale. Alla fine rimanevo comunque lì a osservarla, la coda che si dimenava.
Più avanti qualcuno mi disse che le lucertole la rilasciano volontariamente. Si definisce autotomia ed è un meccanismo di difesa attraverso il quale avviene un’amputazione spontanea che confonde il predatore. È come se la coda si immolasse, lontana dal suo corpo, dando la possibilità al piccolo rettile di scappare. In più, la parte amputata si rigenera.
Ricordo di essermi sentita più piccola di quanto già non fossi.
L’anno del mio undicesimo compleanno era la fine dell’estate e i miei genitori mi avevano regalato una bicicletta nuova, una graziella azzurro pastello. Andavano di moda in quel periodo e i ragazzi si divertivano a rubarle davanti alla chiesa la domenica mattina, mentre i loro ignari proprietari erano a messa. È buffo pensare che fosse una tra le cose più divertenti al mondo. Pedalavo tra le campagne non lontano da casa, in direzione di un bosco dove ci ritrovavamo con gli amici del cortile a inventarci avventure di ogni tipo; mi stavano aspettando e c’era anche mio fratello, compagno indispensabile di quel tempo insieme. Quel giorno però avevo voglia di stare da sola per un po’, il sole era ancora piuttosto alto e ricordo di aver pensato che non sarebbe stato grave ritardare. A circa un chilometro di distanza si trovavano le vecchie rotaie di un treno commerciale che passava solo alle diciotto e trenta, ogni pomeriggio. Sarei andata lì. Cominciai a pedalare, c’era un’atmosfera bellissima, si portava addosso lo strascico di un’estate ormai giunta al termine; non mi resi conto che iniziavo a correre alla massima velocità sulla strada sterrata, con intorno solo campi d’erba e girasoli rinsecchiti dall’arsura estiva, l’aria afosa ma i colori della bella stagione che rinfrescavano la vista. Pedalavo senza neanche guardare a terra, persa tra i miei pensieri da undicenne. Avevo in mente Coccodrilli di Samuele Bersani, l’avevo sentita in radio forse la mattina stessa – In America lo sai che i coccodrilli vengon fuori dalla doccia – la canticchiavo nella testa. A un certo punto sbucò dal basso di un cespuglio un animale strisciante che si dileguò in un secondo. Frenai di colpo inchiodando, mi soffermai a cercarlo con lo sguardo e lo intravidi per un istante prima che sparisse tra i rovi; aveva la coda lunga e sembrava ricoperto di squame, un misto tra un’iguana e una lucertola. Mi ricordai che mio fratello ne aveva vista una simile insieme a mio padre e mentre riprendevo il mio percorso mi domandai se anche lei rilasciasse la coda come difesa, se avesse il potere dell’autotomia. Stavo andando di nuovo velocissima e arrivai al passaggio a livello tutta sudata. La sbarra era abbassata e mi fermai per bere un po’ d’acqua, quando sentii delle voci provenire dalla mia sinistra. A circa cento metri di distanza, sulle rotaie, c’erano tre figure. Erano dei ragazzini che avranno avuto su per giù la mia età, impegnati in un’operazione poco chiara, ridevano e urlavano. Strinsi gli occhi per scoprire chi fossero, magari li conoscevo, cercai di capire meglio cosa stessero facendo ma la luce del tramonto li rendeva poco più che delle ombre; due di loro erano piegati sulle ginocchia, il terzo teneva un piede fermo sopra qualcosa che sembrava muoversi tra i binari, li sentivo sogghignare e a tratti gridare, in preda a un’ eccitata euforia. Non riuscivo a capire cosa stessero dicendo ma mi invase una brutta sensazione e pensai che avrei dovuto raggiungere subito mio fratello e gli altri, che era stata una cattiva idea venire al passaggio a livello, ma rimasi immobile a cavallo della bici, in ascolto. Insieme alle loro voci udii un suono diverso, un lamento forse, poi riconobbi distintamente il latrato disperato di un cane; il ragazzo in piedi lanciò un urlo verso uno dei suoi compagni, sembrava arrabbiato, poi sferrò un calcio all’animale che guaì più forte mentre gli altri due lo tenevano fermo. Mi si strinse lo stomaco. Colta da un moto di coraggio scesi dalla bici e feci qualche passo verso di loro prima di fermarmi, uno alzò lo sguardo e mi fissò per un istante. Si erano accorti di me, avevo la bocca asciutta e sentii il corpo pesante, incollato al suolo. Più avanti, mi pentii di non aver dato retta all’impulso di correre verso l’animale. Sentii il rumore del treno che stava arrivando, mi voltai a guardarlo mentre si mangiava secondo dopo secondo la strada, le travi delle rotaie scomparivano sotto di lui una dietro l’altra. Il macchinista si accorse dei ragazzi e azionò la leva del fischio, il treno correva alla massima velocità. I due inginocchiati, ora li vedevo bene, si accertarono di aver stretto intorno alle zampe del cane delle corde che avevano legato alle rotaie. Tutti e tre fecero un balzo verso sinistra e senza smettere di ridere presero a salutare con la mano in direzione del treno e poi dell’animale. Il macchinista cercò di fermarsi ma andava troppo veloce, da un serbatoio fuoriuscì del liquido per il tentativo di frenata e si alzò una nube di polvere. Sentii il cane guaire e latrare e piangere, lo vidi dimenarsi disperatamente. Poi un colpo secco. Mi voltai di scatto dall’altra parte, chiudendo gli occhi come se avessi appena ricevuto uno schiaffo. Il treno continuò il suo percorso lasciando dietro di sé una folata di vento e l’eco del suo passaggio. Mi girai di nuovo verso i ragazzi, che si erano ammutoliti a guardare la scena e si avvicinarono alle rotaie in direzione di ciò che era rimasto del cane. Non ridevano, non gridavano, non esultavano più. La loro esaltazione era atterrita. Non li vidi bene in faccia ma ebbi l’impressione che tutti e tre avessero un’espressione inebetita, in particolare quello che aveva sferrato il calcio all’animale, che dopo un attimo si piegò in due a vomitare. Gli altri tirarono su da terra le loro biciclette, lo aspettarono e insieme, in silenzio, sparirono dietro la curva nei campi.
C’era una quiete terribile. Tutto era immobile, avevo le gambe molli e un groviglio spesso in gola. La luce del semaforo del passaggio a livello diventò verde, la sbarra si alzò. Fino al giorno dopo non sarebbero passati altri treni. Mi girai verso la mia bicicletta e presi il manubrio tra le mani, non mi passò per la mente neanche per un secondo di andare a vedere i resti del cane. Sentivo ancora i suoi lamenti strapparmi la pelle da sotto il petto. Mi incamminai per raggiungere il bosco dove mi aspettavano ancora mio fratello e gli altri, per distrarmi ripensai alla lucertola-iguana che avevo incontrato all’andata, ma sentivo di nuovo i guaiti del cane e mi arrabbiai perché non era come le lucertole, non avrebbe mai potuto dividersi a metà, ingannare i predatori e scappare, sopravvivere, salvarsi.
Da quel giorno non provai mai più a catturare le lucertole.
wow! davvero accattivante
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Mi sono commossa. Ho sentito tutte le emozioni, contrastanti attraversarmi la mente e il corpo!
Brava!!!
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Grazie!! 🙂 ❤
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È arrivato tutto quello che hai scritto, anche le tue sensazioni di quel momento. 😐
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Sono contenta per l’immedesimazione 🙂 mi spiace non fosse piacevole…
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