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GIRO di PAROLE SENZA PAROLE

Come stiamo?

Non molto bene, ci hanno detto

Dopo quello che abbiamo passato…

E ha fatto un caldo st’estate, non se ne poteva più

Pensavamo addirittura

fossero finite le gocce

Terminate!

Qualcuno ha detto che

fondamentalmente

abbiamo esagerato

E altri

No, ma come?

Con le facce stupite

atterrite

Perché ora solo a ottanta all’ora, al massimo

Ora niente giochi d’…

Non la dire!

Non la dire quella parola

C’è scarsità non la sprecare

Dammi un pezzo di stoffa

Mettiamo le toppe agli argini ai buchi nell’aria alle fuoriuscite di petrolio ai pestaggi ai soprusi

Mettiamo le toppe

Guarda di là, che bel sole

Non ne parliamo dai

Poi proprio adesso che si lavora di nuovo che si balla di nuovo che si tifa di nuovo che c’è turismo di nuovo

Spremiamo le arance, pure che è Ottobre


Come stiamo?

Ce la godiamo finché possiamo

Finché qualcuno non sussurra

“Le armi…”

Non lo pensare!

Noi mai

Sono loro i pazzi

Loro che non amano i cani

Loro con la bava alla bocca per il male degli altri

Loro che guidano a cazzo

Loro che mangiano zucchero bianco

Loro boriosi egoisti

Loro conquistatori

Loro individualisti, arrivisti

Loro che fanno body shaming

Loro omofobi e falsi perbenisti

Loro sfruttatori

Loro!!!

Mica noi,

che facciamo fatica

Quanta fatica

Noi che le bollette le abbiamo sempre pagate

Noi che se possiamo la macchina la evitiamo

Noi che non mangiamo carne

Noi che usiamo le buste di stoffa

Noi che chiudiamo il rubinetto quando ci laviamo i denti

Noi che non fumiamo

Noi che…neanche a una mosca.

Noi senza parole

per noi, conciati così

Che ci arrabbiamo, ci detestiamo

che al semaforo ti giuro quello lo ammazzo!

Noi senza più niente da dire

senza benedizione

senza colpe

senza vie di guarigione

senza più luce per i fiori

Noi

Noi amiamoci dai,

che domani poi…

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ALLA TRATTORIA

(Episodio 1.)


La trattoria ha una valutazione di 9.10 sui più gettonati siti di recensioni di ristoranti. Lì si mangia bene, si beve (ma per farlo bene i proprietari consigliano di portarti il vino da casa), si spende il giusto, si viene trattati bene.

La trattoria è un luogo che ti insegna che non bisogna mai, mai fermarsi alla prima impressione.

La prima impressione della trattoria te la da Esse, piazzato in piedi fuori dal locale con le mani incrociate dietro la schiena, a cercare di fare da contrappeso a una pancia importante su cui è sempre allacciata una parannanza nera. Lo sguardo serafico sulla strada assolata, che fino alle otto e mezza di sera sulla trattoria batte il sole cocente.

Per questo la salvia e il rosmarino crescono così bene.

“Perché so’ esposti a sudd”, dice Esse con orgoglio.

Nella penombra, più indietro, seduto sull’uscio del locale su una sedia di legno sghemba, un libro appoggiato sul tavolo e una posizione tutta curva e storta, c’è Emme, l’altra prima impressione che ti da la trattoria. Sguardo di marinaio, capello lunghetto corvino e unto, una camicia diversa a settimana – se va bene – che si porta dietro gli schizzi in cucina e le vicissitudini di ogni giornata.

Se li guardi da fuori, mentre servono ai tavoli talvolta con bonaria confusione, incorniciati dal muretto di pietra, la tenda da sole a righe corrosa dal tempo, le ghirlande e le luci di Natale appese tutto l’anno e accese ogni sera senza alcuna motivazione estetica o festiva, non diresti che la Trattoria è un luogo che su Tripadvisor va così forte. Eppure.


Essendo vicina all’areoporto e recensita così bene è frequentata sia da clienti abituali e amici che pasteggiano con goduria quotidianamente, sia da turisti di passaggio che desiderano gustarsi un piatto italiano a poco prezzo e fatto bene.

Sta di fatto che una sera si presenta Agata, una signora polacca che in attesa di prendere il suo aereo per il Warszawa Chopin International Airport ha ben pensato di fermarsi a mangiare qualcosa di buono in un ristorante della cucina tradizionale romana. La vedo arrivare un po’ disorientata per poi riprendersi subito – come turbata da qualcosa di fastidioso – non appena Emme la accoglie con la camicia impataccata e le mani sporche di carne alla griglia. Lei dice con tono pacato:

“I have a reservation”

Ed Emme le indica un tavolo qualsiasi rispondendole in un italiano farfugliato e dimostrando di non aver inteso la sua frase. Lei si siede senza guardarlo mentre lui le porta il menù strisciando con le ciabatte per terra. La vedo indossare gli occhiali da vista per leggere il menù come farebbe una severa professoressa di lingue antiche per selezionare accuratamente il prossimo poveraccio da interrogare. Il suo sguardo è fisso, impassibile, nessun tipo di smorfia o espressione si azzarda a esplicitarsi sul suo viso. Passano alcuni minuti così. Agata mi sembra fossilizzata.

Esse allora si avvicina per supportarla con gentilezza.

“Posso esserle d’aiuto nella scelta, signora?”

Agata riprende vita solo a quella richiesta e gli chiede cosa siano i supplì e i fiori di zucca fritti. Pare che su quella domanda cada il silenzio, un silenzio in attesa di una risposta necessariamente esatta e dettagliata, per di più in inglese. Sembra che tra noi degli altri tavoli si crei un’aspettativa comune rispetto a ciò che succederà.

Poi Esse stupisce tutti con un raptus di poliglottismo inaspettato e del tutto personale.

“Un supplì is a rice ball with cheese and meat”

Asserisce, accompagnando la frase con un gesto delle mani che disegna chiaramente e distintamente nell’aria una polpetta di riso delle dimensioni di un melone. Vedo Agata perplessa, Esse ha appena descritto una cosa che se uno se l’immagina gli viene da pensare a una palla di riso con dentro un mix di mozzarella e di carne non identificata poco invitante, tra l’altro si è dimenticato di dirle che un supplì, buono o cattivo, è sempre fritto.

“Mentre gli zucchini flowers…Is…” E guardandosi intorno imbarazzato, cercando l’appoggio dei suoi connazionali – noi – seduti ai tavoli… “A’ regà come glieli spiego i fiori de zucca?…Sa che c’è signò? Ve li porto così se ti piacciono li magni” dice Esse incamminandosi verso la cucina.

Ed è in questo istante che tutti siamo testimoni dell’umanità di Agata, che apre un grande sorriso e risponde con voce alta “I’ll take everything and.. uno spaghetto alle vongoli anche, par favoro!” Dice con un italiano incerto e uno sguardo dolcissimo, mentre Esse le fa segno di aver annotato tutto a mente.

Alla trattoria, con nessuno devi fermarti alla prima impressione.


Un quarto d’ora dopo sul suo tavolo ci sono mezzo litro di bianco e tre piatti con una quantità di cibo che vale per almeno due Agata e mezza, con un imbarazzato sorriso lei dice “It’s too much” e il cameriere di turno, un tizio coatto con la testa rasata – la terza prima impressione della trattoria – con un inglese dalla pronuncia quasi londinese le risponde: “But it’s all really tasty”, strappando ad Agata il secondo sorriso a trentadue denti e invitandola a cominciare a mangiare.

Lei si tuffa in una festa di sapori unici e goduriosi, bramando con lo sguardo ogni prossimo morso e assaporando ciascun boccone come fosse l’ultimo. Alla fine si spazzola tutto e terminata la cena ordina anche una panna cotta e un caffè, che in Italia senza il dolce e il caffè non si può stare.

Quando si alza per pagare il conto Agata è una gioviale turista sorridente, non una fredda professoressa di lingue antiche. Lascia sul tavolo dieci euro di mancia, va a ringraziare Emme ed Esse per la loro gentilezza, a complimentarsi col cuoco e dice che adora la scelta delle luci natalizie tutto l’anno. “I love Christmas” afferma lei il venti di Luglio alle undici di sera, prima di andare a prendere il suo volo per Varsavia, dove scriverà una nuova recensione per la Trattoria che oggi ha una valutazione di 10.10 sui più gettonati siti di recensioni di ristoranti.

Lì si mangia bene, si beve (ma per farlo bene i proprietari consigliano di portarti il vino da casa), si spende il giusto, si viene trattati bene.

La trattoria è un luogo che ti insegna che non bisogna mai, mai, mai fermarsi alla prima impressione. Anzi, se ti siedi ti senti a casa, e mangi pure meglio.

Lo dice Agata.

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SOLO UNA CASA

(Però la mia)

Quanti piedi 

hanno varcato la tua soglia 

Per condividere qualche ora

Per rimanere a cena

Per fermarsi, di passaggio

Salutare

Per entrare e stare

Respirarti

Perché sei bella

(Già. 

Bella, una casa)

É strano 

Mi fai pensare 

che ci attacchiamo 

alle case

alle cose 

Le sentiamo nostre

Ci diamo il permesso

di nominarle

Ci consentiamo

di dargli il valore  

che diciamo noi 

Mi fai pensare 

che le cattive abitudini

diventano parte dell’arredamento 

Insieme alle calamite 

ai fumetti ingialliti

agli scontrini tenuti per niente 

Mi fai pensare 

che ci ostiniamo a conservare

Inscatoliamo impacchettiamo suddividiamo etichettiamo

Come non ci bastasse

ciò che proviamo

Eppure lo sai 

Di quante chiacchiere

parlavano

i piatti nella credenza 

Le fotografie mute 

Sorridenti

E il divano 

che è sempre stato 

un po’ scomodo

Ma va beh

Perché ci si abitua 

Ci si affeziona

Ci si impossessa 

Dei tramonti al balcone

Il loro arcobaleno d’infanzia 

Il loro rosso di adolescenza 

E della grandine

che sempre cade

Orizzontale 

E poi lo sai 

Degli angoli 

che si sono riempiti

di storie e di lacrime

Dei sassi 

del Primo Amato cane 

(Amava collezionare)

Dei peli di adesso

del secondo 

sempre amatissimo

 

Degli ingressi

che si cibano di abbracci 

Tu lo sai

Dei tre campanili

Ognuno su ogni affaccio 

Tu lo hai sempre saputo 

Io per vent’anni mai

Che quando le cose

le hai sotto gli occhi

finisce che poi non le vedi

E poi 

Le tue pareti 

ci hanno visto 

crescere 

Invecchiare

Tutti.

Che così chiamiamo

Il passare del tempo

sulla nostra pelle 

nelle nostre ossa

E qui dentro tu

mi hai vista cambiare

Bambina 

Figlia

Sorella

Amica  

Donna

Restare sempre me

Un’ adolescente 

mutevole

incazzata 

ma così entusiasta

E una studentessa 

Appassionata 

Incerta

Mai costante 

Qui dentro 

Ho potuto avere 

il lusso di rimanere

Ingenua 

Pura

Piccola

Quando fuori qualcuno

mi chiedeva 

d’esser già grande 

E io non ero pronta 

E ho di nuovo otto anni 

(Con quella gabbietta

tra le mani

Un uccellino volato via

Meno male!)

Adesso che

dopo venti 

Con i piedi fuori 

ed il cuore dentro

Penso: GRAZIE

Sei solo una casa.

Però sei stata la mia.

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DENTRO, FUORI E INTORNO ALLA GABBIA | IL ROMANZO ESORDIO DI ANDREA CINALLI

Certe volte l’incontro con l’altro fa sì che si accenda una torcia sulle ombre, sugli aspetti non in luce del nostro essere. È ciò che accade a Matilde e Gaetano, protagonisti del romanzo, che trovano nella conoscenza reciproca la possibilità di mettersi in dubbio e di mettere in discussione i confini della gabbia entro cui vivono. Matilde vive una storia con Virginia ma si sente spesso smarrita, Gaetano invece rifugge qualsiasi situazione che vada oltre il sesso occasionale e al tempo stesso lotta con l’apatia che prova per i corpi dei ragazzi con cui va a letto. La gabbia, qui, è l’identità sessuale, se vissuta come spazio entro cui reclude un’etichetta che viene attribuita dalla società per convenzione. Gabbia sono anche i confini immaginari che ognuno crea per se stesso come zona di comfort, fino a convincersi che facciano al caso suo. La gabbia che, da un momento all’altro, ci si ritrova a osservare da fuori pensando che non è poi tanto male uscirne. Perché ci sono limiti che ci appartengono ed è giusto riconoscerli, poi ci sono falsi limiti, che certe volte inibiscono l’essere noi stessi fino in fondo.

Matilde e Gaetano lo scoprono in modo intimo, delicato e a tratti impacciato e arrabbiato, con le contraddizioni che appartengono ai loro caratteri e alla loro età. Si conoscono, dapprima con diffidenza, all’interno dell’associazione Gay Troop, dove si fa dibattito e si approfondisce la tematica LGBT con tutte le sue possibilità.

Un po’ per caso e un po’ per scelta si trovano ad affrontare insieme un’esperimento: fingersi una coppia eterosessuale che pianifica di avere una vita insieme.

Se tutto parte come un compito da portare avanti, in realtà nelle due giovani anime si smuove qualcosa. Entrambi covano sul fondo dei loro stomaci il beneficio del dubbio rispetto a ciò che credevano su se stessi, trovandosi a camminare per mano lungo una strada incerta, attorno alla quale gravitano persone del presente con cui è difficile convivere – come le loro depresse madri – e ricordi del passato che fanno fatica a essere lasciati indietro. 

La struttura del romanzo è d’ispirazione seriale – come dichiara lo stesso autore, che afferma di essere cresciuto a furia di serie tv – e con questo racconto può sicuramente essere d’ispirazione agli spiriti più giovani e far riflettere perfino chi ormai si considera “adulto” – perché anche tale etichetta è messa in discussione, qui, dove niente è certo e forse è giusto che sia così.

Attraverso una scrittura fresca, ricca di dettagli visivi, a tratti umoristica e descrittivamente fitta ci viene regalato un romanzo fatto di incastri temporali e contraddizioni emotive che mostrano, parallelamente, momenti e frammenti di una relazione che si fa via via più intensa e profonda.

Matilde e Gaetano sono protagonisti di una storia esclusiva che li vede condividere le incertezze e i dubbi che si direbbero tipici di una certa età dell’esistenza di una persona.

Ma quanto di ciò che viviamo a “quell’età” è capace di dissipare, nel tempo, tali dubbi e incertezze?

Dentro, fuori e intorno alla gabbia sembra suggerirci che le strade percorribili siano molte, anche se spesso crediamo – e ci fanno credere – di essere destinati a un cammino preimpostato.

Siamo complessi e sfaccettati, e Andrea Cinalli con questa storia ce lo racconta bene.

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A TE CHE MI HAI DERUBATO

Questo è indirizzato a te, che questa mattina mi hai rubato cinquanta euro.

Lo so che tecnicamente non mi hai derubato, dal momento che guardando a terra avrai trovato i cinquanta euro di un povero idiota che li ha lasciati cadere così, come un fazzoletto dalla tasca.

Il povero idiota sono io.

Ecco, vorrei semplicemente sapere chi sei, vedere l’istante in cui hai raccolto da terra quella banconota e hai pensato tra te e te:

Non ci credo!

Vedi il karma!

Oppure

Chebbottadiculo!

A seconda di chi sei, immagino.

Forse sei un uomo d’affari che viene rincorso dalla fortuna. Forse sei una ragazza come me a cui piacciono cose totalmente diverse da me. Forse sei quella ragazza con cui ho parlato prima di entrare in macchina…? Forse sei una signora che aveva bisogno di una giornata buona e si è ritrovata sotto i piedi cinquanta euro. Forse sei un cane che li stava annusando, il tuo padrone ha fatto finta di chinarsi ad accarezzarti per impossessarsene. Forse sei una persona per cui cinquanta euro fanno una differenza enorme. Forse sei un adolescente che ha litigato con i suoi amici su chi li avesse visti per primo, per poi spenderli tutti insieme in minchiate…

Forse tutti voi non sapete cosa mi è successo prima di perdere quei soldi. Forse non vi immaginate la mia faccia quando ho scoperto di non averli più in tasca pensando:

Testacciadiminchiamacosativieneinmentedimettereisoldiintascainvecechenelprotafoglio?

Giuro che non l’ho praticamente mai fatto. Però dovete immaginare una di quella mattinate in cui non sembra vero che il mondo giri in questo verso che non si sa quale sia. Prendete una mattina in cui per un qualsiasi motivo abbiate dovuto risolvere una qualsiasi questione che ha poi implicato una serie di chiamate, controlli di password e codici e pin, verifiche d’identità, richiamate, passaggi burocratici che portano dal primo all’ultimo step per poi tornare al primo, nuove chiamate a persone che vi dicono che dovete chiamare altre persone che vi dicono di contattare altre persone che vi dicono di… Poi siete usciti di casa e siete andati in posta,dal medico, in farmacia, in banca e al supermercato. Ora moltiplicate tutto all’ennesima potenza e nella frenesia degli eventi perdete i cinquanta euro che avevate distrattamente messo in tasca pensando: ora li sposto.

Quindi ecco, semplicemente rifletti su questo, tu che mi hai derubato. Lo so che non mi hai derubato, ma pensare a Quel bastardo che me li avrà presi…quando mi sono resa conto di non avere con me il denaro mi ha fatto schivare il dito che mi stavo puntando contro.

Eppure sappi che c’è una parte di me che si compiace con te per ciò che ti è successo, perché a me non è mai capitato di trovare cinquanta euro per terra.

A te sì.

Ma grazie a me.

Perciò per qualche strano riflesso psicologico è un po’ come se fosse accaduto a me, anche se è tutto il contrario. E ora, dopo questo evento, mi ritrovo di fronte a due possibilità di pensiero:

Credere che mi sia capitato per un motivo ‘altro’ che mi sarà chiaro in seguito.

Pensare che sono la solita maldestra sbadata e che devo stare più attenta.

Siccome la prima mi piace di più, mi viene da pensare a quando tempo fa ho intrapreso i 21 giorni dell’Abbondanza di Deepak Chopra, un percorso che è un po’ un mix fra meditazione guidata, introspezione e filosofia new age pop un po’ sconclusionata. Se non lo conoscete è da provare, è interessante quello che esce fuori. Comunque, a un certo punto del viaggio Deepak Chopra ti dice che puoi mettere in pratica diverse azioni al fine di vedere la tua ricchezza moltiplicata sotto vari aspetti, tra cui quello materiale. Ecco, (miei) cari cinquanta euro, in fondo questo è più un appello per voi: fate come se questo mio abbandonarvi fosse stato un gesto iniziatico mirato a uno scopo ben preciso, vedete di proliferare e poi tornare da me, senza però che debba derubare nessuno.

Io vi aspetto eh.

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La filosofia del “Dipende…”

Il Guru della filosofia del Dipende conduce una vita priva di vizi ed eccessi – tranne per alcune abitudini sapientemente selezionate – in una casa modesta senza troppi mobili e oggetti- tranne quelli a cui è irrimediabilmente legato –

Il Guru della filosofia del Dipende vive le proprie giornate pensando al qui e ora, perché è controproducente essere troppo proiettati sul domani, e domani comunque “Dipende…”

Il Guru della filosofia del Dipende accoglie chiunque decida di intraprendere uno stile di vita pacifico in cui le preoccupazioni siano ridotte al minimo grazie all’acquisizione di un atteggiamento di “Dipende…” nei confronti del mondo e di sé stessi.

Secondo la filosofia del Dipende non c’è nulla di assoluto. Ogni situazione andrebbe valutata in maniera contestuale perché le cose dipendono da varie contingenze, così come le persone e il loro modo di essere ed agire. Ogni persona è un universo e ognuno ha le proprie ragioni da portare avanti, ma sulla sua porta d’ingresso il Guru ha appeso un cartello che recita:

“La filosofia del Dipende può non essere adatta a tutti. Perché in fondo dipende sempre.

Se sei un attacca scazzi o un assolutista ti consiglio di fare un passo indietro e tornare quando avrai risolto i tuoi problemi.”

Il Guru della filosofia del Dipende è molto schietto su certe cose.

Andai da lui in un momento di grande confusione, tipo quando vivi le tue giornate con quella costante serie di domande in testa che non ti molla…

“Ma io chi sono?”

“Ma cosa faccio?”

“Ma che cazzo di senso ha tutto questo?”

Il Guru mi mise subito a mio agio, spiegandomi con grande potere oratorio i concetti basilari della sua filosofia.

Disse:

Quando inizi a pensare che “Dipende…” puoi scoprire che la percezione di te stesso è modificabile. Non esiste pensiero che non possa essere rovesciato. Dipende sempre da che angolazione guardi le cose. Dipende in che modo decidi di infilartici dentro, alle cose. Ti ci infili lentamente? Riflettendo, o magari semplicemente andandoci piano. Oppure ti ci tuffi di testa senza pensare alle conseguenze?

Dipende.

Dipende da ciò che hai vissuto, dipende da ciò che scegli di vivere e da ciò che non dipende in alcun modo da te. Perché sai che anche questo ha un peso sulla tua vita.

Ogni cosa mette il suo peso su di te.

Ma tu che peso gli dai?

Dipende.

E allora tutto dipenderà da te e allo stesso tempo no.

Ammetto che mi sentii confusa. Non capii esattamente dove volesse andare a parare e mi sembrò che si fosse perso e si stesse arrampicando sui vetri. Mi guardò fisso negli occhi e poi si mise una mano in tasca per estrarne una pietra grande come una castagna. La posizionò ad altezza del mio sguardo tenendola tra l’indice e il pollice.

“Quanto pesa adesso questa per te?”

Non pesava niente, l’aveva lui in mano.

Poi me la mise sul palmo. Pesava molto più di ciò che sembrasse.

“E ora? Ora è un tuo problema, il peso che le attribuisci è un tuo problema”

Chiusi le dita e strinsi la pietra nel palmo, mi parve più leggera.

“Di che colore è secondo te?”

A un primo sguardo avrei detto blu. Eppure bastava girarla leggermente per vederne cambiare luce e sfumature, la pietra diventava verde, aveva delle impercettibili striature color roccia e girata su un certo lato sembrava addirittura viola.

Dissi: “Dipende da che…”

Lui mi fermò: “Basta così”

Riprese la pietra, mi fece un grande sorriso e mi congedò.

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SE NON CI RIVEDIAMO BUON ANNO

Era stata una mattinata piena di contrattempi e ostilità che le avevano provocato un certo ribollire di rabbia, che comunque rimaneva quieta sul fondo dello stomaco e anzi, veniva mitigata bene dalla temperanza e dal controllo acquisiti negli ultimi giorni. Non poteva mollare proprio adesso, alla cassa con la signora davanti che in preda a un quasi attacco di panico si ricordava quasi, non fino in fondo, il codice della sua carta di credito. Diceva che ultimamente stava andando fuori di testa, che prima di venire al supermercato era stata in farmacia dove sono tutti matti. Non poteva mollare proprio adesso, con il fiato sul collo del signore alle sue spalle, che innervosito da tanta euforica sbadataggine e con un solo pacchetto di cioccolatini e dei limoni da comprare, cominciava a sbuffare a trenta centimetri dal suo orecchio. Non poteva mollare proprio adesso, l’ultimo giorno di quest’anno di merda. Non poteva dirsi altro. Lo pensò forte e chiaro come se lo stesse pronunciando: Anno di merda, e al tempo stesso sapeva di non poter mollare perché era stato deciso che non sarebbe stata negativa né tanto meno ostile verso l’ultimo dell’anno, che dopotutto avrebbe passato con persone con le quali le andava di stare e con del buon cibo che era stato sapientemente comprato e cucinato in anticipo. Non si era scomposta nemmeno dopo aver scoperto di essere sprovvista di una piccola ma per nulla insignificante cosa: la carta igienica. Guardò la gente in cassa con le mascherine che gli tiravano le orecchie, pensando a quando il mondo aveva fatto la scorta di carta igienica credendo che l’industria della carta igienica si sarebbe fermata per sempre. Lei aveva mancato l’appello per quel momento di follia globale, ma era stata presente a molti altri. E siccome era l’ultimo dell’anno e in fondo le piaceva stilare mentalmente la lista delle cose fatte, dei buoni propositi e tutto il resto di stupidaggini mentali che molti concentrano sul finire dei trecentossessantacinque giorni e l’inizio del nuovo convenzionale anno, era arrivata al punto di pensare che aveva passato troppo tempo a sentirsi arrabbiata, frustrata, spaventata, sfiduciata e tutte le altre ‘ata’ che possano venire in mente. Aveva perciò deciso di farsi un regalo per la fine e l’inizio insieme: stare serena. Tanto il mondo non sarebbe stato meno incazzato, tutti i disastri – o quasi – che il genere umano potesse fare li aveva fatti, il Natale era stato ciò che era stato…scurdammoce o passato…

La signora davanti però oltre a non ricordarsi il proprio pin stava mettendo su una sceneggiata e la tensione con la cassiera iniziò ad ispessirsi, il signore alle spalle seguitava a sbuffarsi dentro la mascherina e cominciò a guardarsi intorno cercando una cassa più veloce e agevole da raggiungere, ma ogni corsia era occupata da almeno quattro o cinque persone con carrelli o cestelli pieni. Alcuni avevano sia carrello che cestello. Le suonò il telefono nell’istante in cui la discussione tra signora e cassiera si faceva accesa, quasi al climax dell’incazzatura generale, che cominciava ad attrarre sguardi curiosi e avidi di rabbia da raccontare.

Era sua cugina Serena, con la quale non vedeva l’ora di passare una serata di ilarità festosa ma che l’avvertiva che il compagno si era svegliato con un po’ di raffreddore e di febbre, quindi per precauzione sarebbero rimasti a casa, anche se sarebbe passata il giorno dopo a portarle il dolce che avevano preparato per lei e Jacopo.

Chiusero la chiamata dicendosi quanto gli dispiacesse. Fissò la povera cassiera con gli occhi fuori dalle orbite, mentre rimetteva via il telefono le squillò tra le dita e senza guardare rispose alla chiamata. Era Jacopo, appena avvertito dalla sua coppia di amici che erano rimasti bloccati in un impianto sciistico perché avevano sbagliato pista o non si sapeva cosa e qualcuno si era fatto male, così erano costretti a rimanere lì per la notte e a saltare la cena di Capodanno insieme. Jacopo le disse che aveva appena ritirato l’ordine alla gastronomia e che c’erano cose da mangiare per un reggimento. Si salutarono ridendo un po’ amaramente ma neanche tanto, perché a entrambi andava comunque bene stare insieme da soli.

Nel frattempo la signora davanti aveva trovato dei contanti con cui pagare e il signore dietro aveva individuato una fila più veloce in cui intrufolarsi e dove litigare con un altro signore che sosteneva di essere stato derubato del proprio posto. Ogni coda era bracere di discussioni, tutti avevano ragione e tutti avevano torto, nessuno si capiva con le mascherine, ognuno intendeva ciò che voleva, tutti erano irrimediabilmente incazzati, con i loro carrelli e cestelli pieni di cose.

Tutti tranne lei, che rimaneva serena. Stupendosi della sua capacità di rimanere così distaccata, perché era capitato che si sentisse più cinica nei confronti di questa festività un po’ esigente, fatta di convenzioni pratiche ed emotive. Fatta di code sfinenti in ogni luogo. Ora però aveva esaurito la voglia di sentirsi in dovere di rendere tutto peggio di ciò che in realtà non fosse. Pagò il proprio pacco di carta igienica, sorrise alla cassiera e mentre stava andando via incontrò Jessica: ex compagna di liceo petulante, logorroica, pedante e come se non bastasse negativa come la grandine dopo una gomma bucata in mezzo al nulla.

Una grande prova.

Jessica l’aveva vista da lontano e lei avrebbe voluto lanciarle i rotoli di carta igienica in faccia e correre via veloce lungo le scale mobili. Invece aveva svicolato da subito dicendo di essere in ritardo per una cena, così Jessica commentò gridando – che era un’altra sua prerogativa – “BEATA TEEEE!” e cominciò a elencarle tutta una serie di motivi per cui si ritrovava completamente sola la sera di Capodanno senza nessuno con cui uscire e a cui unirsi perché chi aveva la febbre, chi preferiva farsi i cavoli propri, chi aveva fatto finta di niente fin dall’inizio, chi aveva dato buca all’ultimo per impossibilità di fare un tampone – che in farmacia sono tutti impazziti!- non era rimasto nessuno. Neanche una persona. Per un secondo le solleticò la mente il pensiero di avere a cena Jessica, immaginò la faccia di Jacopo quando gli avrebbe fatto credere di aver invitato a casa la più pesante delle sue compagne del liceo per l’ultimo dell’anno; in fondo la poverina stava chiaramente e disperatamente cercando qualcuno con cui condividere la serata, continuava a ripetere le stesse cose girandole e rigirandole e con una maestria invidiabile stava chiedendo di essere invitata a cena senza farlo. A quel punto l’atteggiamento di Jessica si stava facendo irritante ma di colpo si interruppe con la più classica delle convenzioni verbali, presa da chissà quale fretta festiva che la trascinò verso l’uscita:

“…Se non ci rivediamo BUON ANNO!”

Gridò cercando invano di alzare una delle due mani per salutare, che reggevano delle buste piene di cibo che avrebbe mangiato con chissà chi.

Lei aveva la sua carta igienica. A casa la aspettava Jacopo, mezzo chilo di lenticchie, delle lasagne ai funghi, carciofi, paté e salse varie, polpette al sugo, una torta montblanc e un vassoio pieno di pasticcini. Che Capodanno meraviglioso. Nonostante la situazione mondiale, le difficoltà di ogni unità familiare, le incertezze e le preoccupazioni, nonostante un altro anno passato velocemente ma intensamente, nonostante un altro resoconto da fare, fu come se l’anno che era stato potesse essere tirato via di dosso come un abito e ci fosse la possibilità di metterne uno nuovo, appena confezionato…

Al quarto bicchiere di rosso, mezza teglia di lasagne, metà lenticchie, polpette spazzolate e struzzicherie varie, con le palpebre mezze chiuse e la risata facile, suonò il campanello ed entrambi si guardarono stupiti e ubriachi. Jacopo si alzò e andò lentamente e in silenzio, sogghignando, a guardare dall’occhiello. Tornò indietro a grandi passi in punta di piedi, ridendo sottovoce e dicendo con le labbra Io non la conosco, costringendola ad andare a controllare di persona, sempre in silenzio, sempre sogghignando.

Il campanello suonò di nuovo.

Dietro una pila di teglie di alluminio si nascondevano la testa arancione e il sorriso un po’ inebetito di Jessica. Lei aprì la porta.

“Ho pensato che se avete quella cena potete aggiungere queste cose, sono buonissime, le ho fatte io con le mie mani. C’è caponata di melanzane, peperoni in agrodolce, pollo arrosto e patate, lenticchie giganti e mascarpone per il panettone, il panettone non c’è ma tanto ogni casa ne ha almeno uno durante le feste. Godeteveli! Ciao!”

E mise in mano a Jacopo tutte le cibarie scomparendo dentro l’ascensore. I due si guardarono basiti e sorpresi poi corsero alla finestra per chiamare Jessica e dirle di salire a casa, che c’era vino in abbondanza e per loro due soltanto tutto quel cibo era troppo. In più avevano il panettone.

A Jessica si illuminò il volto. Aveva passato le ultime ore a bramare le vite degli altri, e ora la sua le parve straordinaria. Jacopo aggiunse un piatto, delle posate e un bicchiere pieno di vino. Lei pensò a tutte le cose che avrebbe dovuto fare dal giorno dopo, pensò alle persone nelle proprie case, pensò che non si sentiva arrabbiata, che avrebbe potuto guardare negli occhi la sua parte incazzata e dirle: Se non ci rivediamo buon anno.

Si sentiva serena.

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UNIONE – Mi sfuggo di mano

‘Mi sfuggo di mano‘ è una serie di fotografie che vuole raccontare la difficoltà di stare con noi stessi quotidianamente.

E il bisogno di riderci sopra.

Mi sfugge di mano

L’incostanza

La mia

quella degli altri

Il tempo per come lo disegniamo

La noia e i suoi preconcetti

Mi sfuggono di mano

Le pagine scritte

su cui

ho lasciato incamminarsi

personaggi vagabondi

ma con forti caratteri

Gli attimi che si accavallano

Le occasioni migliori

Le frasi fatte e strafatte

Le abitudini sopravvalutate

Il conto dei vestiti buttati

Le zone di comfort

Mi sfugge di mano

L’idea che ho di me

e quello che sono

Questa raccolta fa parte del progetto: “Unione”

Fotografie di Sara Pavia – @Flostorm28

Concept e realizzazione: Elisa Maddalena, Sara Pavia 

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UNIONE – SCRIVERE LUCI

Scrivere Luciè una serie di fotografie che vuole raccontare

il rapporto che ognuno instaura con i propri percorsi di ricerca

e attraverso i mezzi espressivi che sceglie.

Qualsiasi essi siano.

Ne ho pensate tante. Dette, forse non abbastanza. Forse non sempre quelle giuste.
Scritte altrettante
Ho disegnato forme, dentro e fuori di me.
Alcune mi si addicevano…

A un certo momento credo di aver capito di dovermi trovare.

Non che mi fossi persa, semplicemente dovevo trovarmi

Da lì ho cominciato a cercarmi

Ogni tanto mi incontro, sulla strada

Questa raccolta fa parte del progetto: “Unione”

Fotografie di Sara Pavia – @Flostorm28

Concept e realizzazione: Elisa Maddalena, Sara Pavia

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EARTH OVERSHOOT DAY

Qualche giorno fa è stato l’Overshoot Day.

Praticamente: succede che ogni anno viene dichiarato il giorno simbolico in cui si verifica l’esaurimento delle risorse rinnovabili che la Terra riesce a rigenerare nell’arco di 365 giorni.

I dati necessari a fornire tale calcolo vengono elaborati dalla Global Footprint Network (Gfn), l’organizzazione internazionale che si occupa di contabilità ambientale e valutazione dell’impatto ecologico. Chiaramente il quadro che emerge è sempre più allarmante. I risultati raccontano come la nostra impronta ecologica superi elevatamente la biocapacità del territorio di generare sempre nuove risorse energetiche.

Quest’anno la data dell’Overshoot day è caduta il 29 Luglio, perciò da quel momento è come se stessimo rubando in anticipo le risorse che abbiamo già ampiamente esaurito per il 2021.

Quindi abbiamo dimostrato di non avere imparato niente.

Che è un eufemismo.

Il concetto di conservazione del mondo sembra essere davvero cosa che non ci tocca. Perché per esempio ci siamo già dimenticati di come il nostro fermarci l’anno scorso abbia avuto un risvolto positivo sull’ambiente. Che tutti presi dalla foga di ripartire, di far riprendere l’economia, di risolvere la “nostra” emergenza ci siamo dimenticati dell’emergenza ambientale. Ci siamo scordati degli animali selvatici che ripopolavano i territori, che uscivano allo scoperto nelle strade deserte, del fatto che la Terra intera abbia tirato un sospiro di sollievo in quel periodo.

Nel 2020 l’impronta ecologica dell’umanità si è ridotta del 9,3% e la data dell’Overshoot Day è caduta con 3 settimane di ritardo in confronto al 2019.

Sembra che questo fatto non si verificasse da almeno dieci anni.

Ad oggi, invece, ci riconfermiamo gli stessi di sempre.

Io penso a questo, ai fuochi in Sardegna, alle inondazioni in Cina e in Germania, all’Artico che si scioglie, ai piccoli disastri ambientali che compiamo giornalmente – anche con ignoranza – e provo tanta amarezza.

E tanta voglia di cambiare le cose.

Se volete capire qualcosa in più, fate il test della vostra impronta ecologica su questo sito:

https://www.footprintcalculator.org/food1

#MOVETHEDATE

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DEVI FARE COME

C’è un uomo che abita in quel casolare.

Ogni tanto vado a trovarlo.

Tutti pensano e dicono che abiti da solo.

Tutti si sbagliano.

Felice – così si chiama – si sveglia ogni mattina alle sei e mezza e va a dare da mangiare alle oche. E quelle, dalla prima all’ultima, starnazzando lo seguono nel giro di saluti agli asini, alle pecore, alle galline.

A Felice non piace dire né tantomeno pensare che quegli animali siano suoi.

Una volta nutriti tutti si prepara la colazione e si siede davanti a una tazza di tè bollente al tavolino in giardino. E sta in silenzio.

Felice si chiama così ma non è stato tale per tanta parte della sua vita, fino al giorno in cui ha incontrato Allegra.

Si può essere persone completamente diverse nel giro di una vita intera.

Allegra aveva lo sguardo più dolce che avesse mai visto. Le piaceva camminare a piedi nudi e si fermava al ruscello per ore, perché diceva che l’acqua la faceva sentire in un modo che non riusciva mai a spiegare a parole.

Allegra un giorno gli ha preso il viso tra le mani e gli ha detto:

Devi fare come

i polsi dei bambini

grondanti di gelato sciolto

Che se ne fregano

di sporcarsi

e aspettano

di essere leccati

Devi fare come

le bacche delle more

che mica hanno fretta

di cambiare colore

soltanto per soddisfare

il prematuro desiderio

di qualche presuntuoso

di metterle in bocca

Un giorno, poi, Allegra era sparita.

Sono rimasto a pensare a quelle parole per mesi… Mi racconta Felice.

Vedevo continuamente le sue labbra…sembravano schiudersi nei petali delle rose del giardino e mi parlavano. I suoi occhi si nascondevano nelle ali in volo delle rondini al tramonto, e mi sorridevano.

Non riuscivo a togliermi la sua immagine dalla testa.

E senza neanche rendermene conto ho fatto esattamente come diceva lei.

Lo racconta a labbra strette, spalmando la marmellata di fragole che ha fatto lui – ma non è sua – sul pane caldo, mi guarda e mi sorride.

Un pò nostalgico, un pò saggio.

Mi allunga il piatto e prende una fetta di pane che addenta con gusto e gli scrocchia in bocca, intanto si siede vicino a me di fronte alla campagna assolata. Guarda il vasetto di marmellata e fa un gesto di compiacimento, mentre mastica come un bambino affamato che si gode la merenda.

Non è andata per niente male.

Dice con la bocca piena.

E io non sono sicura che si riferisca alla marmellata.

Ai maestri che incontriamo lungo la strada

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THE SECRET LIFE OF COWS

Oggi voglio condividere questo lavoro di Sara Pavia, The secret life of cows, un progetto video delicato e semplice come la storia di vicinanza e di vita che vuole raccontare.

Sara, che è un’anima amica con cui ho condiviso e condivido tuttora molto, ha osservato a lungo e da vicino alcuni tra gli esseri che io amo di più sulla terra: le mucche.

Armata della sua camera si è sporcata di fango e di erba umida i vestiti, si è seduta immobile per ore ad osservare, si è fatta annusare i piedi fino a doverli ritirare…e solo dopo aver raccolto materiale sufficiente mi ha chiesto di registrarle il voice over del racconto suggestivo che ne era uscito.

Questa è una piccola dedica ai piccoli progetti conclusi.

Quelli in cui abbiamo creduto il giusto perché potessimo realizzarli. Quelli di cui ormai ci vergognamo, anche se non dovremmo. Quelli che ci hanno fatto incendiare, frustrare, cercare.

Quelli che dobbiamo ancora pensare.

Ho filmato la scorsa estate nella fattoria Ballylarkin, a Freshford, Kilkenny. Grazie mille a Dorothy e Martin per tutto. Grazie anche alla fantastica Elisa Maddalena per la sua splendida voce. Grazie anche a Conor per la sua energia positiva e il violino. Finalmente, un ringraziamento speciale alle mucche numero 21139, 51182, 41157 per i loro ruoli principali e a tutte le mucche che hanno partecipato.

Sara Pavia

Tutte le foto sono state scattate da Sara

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MAGGESE

Anche se non semina, il contadino si occupa sempre del suo campo

Il maggese si chiama così perché, pare, la sua pratica avrebbe coincidenza con il mese di maggio. Con il tempo ci siamo disinteressati all’importanza dei cicli, perciò usiamo lo stesso termine anche se sforiamo di mesi e anche se l’impoverimento dei terreni ormai poco ci importa. Ma questo è un altro discorso.

Volevo soffermarmi sul fatto che da quando l’ho interiorizzata come metafora, mi piace pensare alla pratica del maggese come al bisogno di rigenerazione di sé.

Un po’ è una giustificazione che spiattello qui e là sui miei sensi di colpa quando mi sento inerte.

Un po’ – soprattutto – la trovo giusta. La concezione di riposo attivo in vista di una maggiore fertilità del terreno. Il fatto di dargli il tempo di essere pronto, di non sprossedere le sue risorse.

Che è poi proprio ciò che non ci insegna stare al mondo oggi…con la sua continua richiesta di produttività, di prosperità, di operosità. Fino a che per le strade non si vedano che visi aridi.

Com’è il vostro terreno?

Il mio un casino. Ultimamente ho fatto casino coi ritmi con le terre con le sementi con le annaffiature. A maggio ero piena di erbacce e non ho fatto in tempo ad arare, a pulire, a mettermi in osservazione del campo, a mettermi a maggese. E adesso, a luglio – sempre in orario, sempre sul pezzo – mi sto tenendo a riposo, che mi sono impoverita con tutta quella roba addosso.

Che così mi fertilizzo.

Che così rifiorisco.

Rinverdisco.

E allora approfitto del maggese, dell’utilizzo che gli psicologi hanno fatto del suo significato centinaia e centinaia di anni dopo, per dire a me stessa che la sosta è necessaria.

Grazie maggese, che ti uso a luglio 2021 totalmente fuori contesto, ma tu sei sempre attuale.

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DICE QUELLO…

Dice quello: guarda l’annuncio, che è buono.

Cercano uno sceneggiatore laureato in matematica.

Ma che attinenza c’è?

Nessuna. Ma deve avercene?

Beh, tu esperienza devi avercene.

Almeno 5, 6, 10 anni!

Ma ho finito di studiare oggi.

Cazzi tuoi.

Dice quello…

Però chiedi, che se chiami l’amico di quello che una volta è stato a cena con quello…

Digli che sei amico di quello!

Sicuro ti prendono.

Dice quello:

Oh! M’hanno preso!

Allora offri tu!

Cioè, non è che m’hanno proprio preso.

Sembravano interessati allora mi hanno chiamato.

E dopo che mi hanno chiamato sono passato al primo colloquio.

Ma che fortuna!

E dopo il primo colloquio mi hanno chiesto di collegarmi a Zoom…

…E?

E spariti. Mai sentiti. Volatilizzati.

Beh allora tanto meglio!

Prova altrove!

Dice quello…

Massì!

Ho provato ho provato. Ho fatto la prova ieri.

Una prova pagata?

Dice quello…

E l’altro ride.

Sei scemo?

Comunque, non ero idoneo.

Lo dice quello…

Ma infatti sai che ti dico? Che è una merda.

Quello m’ha detto che ha provato a entrare come commesso al supermercato.

E?

E non era idoneo.

Perché?

Perché lo dice quello.

Ah beh! Ma lo sai che quella, invece, ce l’ha fisso?

Fisso? Fisso come?

Fisso. Per quest’estate, poi si vedrà…

Ma pensi che siamo noi?

Cioè?

Cioè che il problema siamo noi.

L’ho sentito dire…

Ma invece la storia di quello? Quello che ha chiesto quanto gli spettava di paga.

Come? Ma si è rincoglionito?

Come?

Come come? Non si parla mai di quello.

Eh infatti! Perciò non l’hanno preso!

Eh!

Ma scusa eh, per cosa lo faresti tu, anche per quello no?

Eh sì…ma quelle questioni inaspriscono i rapporti…

Mah…

Comunque l’hai visto l’altro annuncio che ti dicevo?

L’ho visto, l’ho visto. L’ho mandato il curriculum.

E?

Sono passate quattro settimane. Niente.

Ancora troppo presto.

Infatti.

Solo dopo tre mesi puoi dimenticartene.

Dice quello…

Però quegli altri, sai quelli che ti dicevo…a cui ho chiesto se avevano un posto…

Beh?

Mi hanno risposto. Pensa! Il giorno dopo!

Ma dai! E tu li hai ringraziati?

Certo! Di più! Nel mio cuore li ho osannati!

Una sorpresa.

Non è da tutti.

Davvero professionale.

Essere così celeri.

Incredibile.

Comunque. Non cercano nessuno.

Team al completo.

Però mi tengono in considerazione.

Va beh, intanto…

Intanto ti hanno risposto.

Dice quello…

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MI DO FASTIDIO

Mi do fastidio quando 

Faccio morire una pianta 

dopo due giorni 

che ce l’ho in casa

Quando preparo

un piatto con amore 

e il mio amore 

ha un gusto pessimo

Quando punto la sveglia 

e la rimando 

poi penso: vorrei più tempo

Quando non colgo l’occasione 

per dire

qualcosa di bello 

E subito sento 

la nostalgia 

delle parole mancate  

Mi do fastidio quando

metto i fantasmini 

So che mi andranno 

sotto i talloni 

E non lo sopporto

Quando dimentico qualcosa

a cui avevo pensato 

fino a un secondo prima 

Mi do fastidio quando 

Mi sento lamentosa 

e vittima e 

“Oh me tapina” 

ma non lo sono 

Quando lavo i piatti 

senza tirarmi su le maniche 

e mi si bagnano

E mi do fastidio

Quando non dico 

che la tisana 

mi piace bollente

Me la danno tiepida

e mi da fastidio

Quando penso

“prendo le buste per la spesa”

poi le lascio a casa 

Quando non ho la risposta pronta 

poi mi rivivo la scena in testa

ed è perfetto

ciò che penso di dire

Mi do fastidio

quando sono in ritardo 

Devo camminare veloce 

e sudo e penso a una scusa 

poi dico solo

Scusa

sono la solita

Mi do fastidio

Quando rimando 

Quando rimangio 

Quando rimugino

Quando mi guardo le unghie 

e mi rendo conto che

non dovrei mangiarmele

perché 

non ho più dieci anni

Mi do fastidio 

da quando 

non ho più dieci anni 

L’immagine in evidenza è di Alex Tansey e l’ho trovata su questa pagina –>

https://www.greymattersjournalvc.org/article/scratchingthesurfaceofanitch

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L’ ACCEZIONE POSITIVA DELL’OMBRA

Le chiese di rimanere immobile e allo stesso tempo di prestare attenzione a ciò che stava per dirle. Era certo che fosse inconsapevole dell’immagine di sé stessa in quel momento – come sempre del resto – e di ogni doppio riflesso di quell’immagine sulla parete, sulla poltrona, sulle pagine del libro, a seconda del movimento dei suoi gesti. Si sistemò sulle piante dei piedi cercando l’istante esatto, perché un punto di vista può sfuggire dalle mani in un secondo, se non si è disposti ad approfondirlo. 

“…Ti parlo dell’area scura proiettata su una superficie da un corpo, che intercetta una sorgente luminosa e si interpone tra la superficie e quest’ultima. Ti parlo dell’ombra e di tutte le cose che pensi siano indissolubilmente legate a te in un modo, invece dovresti immaginarle sotto un’altra luce. Ti parlo dell’ombra e della tendenza che abbiamo a credere che qualcosa non esista, semplicemente perché non la vediamo…o della necessità di estremizzare le antitesi…”

E fece click.

Lei si voltò lentamente, senza scomporsi. Sapeva che le aveva posto la questione in quel modo perché ci riflettesse bene, forse addirittura in maniera inconsueta. Pensò all’ombra come a un elemento che nel suo immaginario aveva generalmente avuto a che fare con il nero, l’opaco, l’intangibile. Pensò all’ombra come a un’eredità emotiva, un peso, un distacco difficile, qualcosa di cui non puoi liberarti. Il lato oscuro. Ci pensò come a qualcosa su cui non aveva mai riflettuto abbastanza…

Lo vide armeggiare con la stampante fotografica che teneva nell’angolo sul comodino, insieme agli album impolverati, alla carta e a una pianta grassa talmente lucida da sembrare finta.

Le disse: “La conosci l’ombra del tuo profilo? L’hai mai osservata?”

No.

Non veramente.

O forse, con diffidenza…

Le si avvicinò e le consegnò la foto.

“Guarda. È un’ombra, ed è bella

“Sei tu”

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CHI VUOL ESSERE MILIONARIO

Quando eravamo piccole io e Martina giocavamo a un gioco che riempiva le nostre serate.

Per chi fosse irrimediabilmente curioso, io e Martina scoprimmo di abitare a due passi l’una dall’altra quando eravamo in classe insieme alle elementari e dopo essere state in classe insieme all’asilo.

Scoprirci vicine, per noi, fu una festa grandiosa.

Comunque succedeva che, dopo cena, una componeva il numero di casa dell’altra per dare inizio a Chi vuol essere milionario, una versione del tutto infantile e personale dell’omonimo quiz televisivo. Succedeva che rimanevamo al telefono così a lungo che ogni chiamata terminava con: “Scusa, mia mamma vuole che attacchi…” ma ero sicura che telepaticamente rimanessimo connesse -ridendo- fino a che non andavamo a letto. Il gioco consisteva nel fare indovinare all’altra quale fosse stata la propria cena, suggerendo tre opzioni possibili tra le quali era nascosta la risposta giusta.

Allora, secondo te ho mangiato:

-Lasagne

-Pasta al pesto

-Sformato di verdure

Divertente, vero?

Ma poi arrivava il bello, perché la versione avanzata del quiz prevedeva che la concorrente fosse sottoposta all’ascolto di alcuni misteriosi rumori di cui doveva indovinare la provenienza. Perciò a turno ci impegnavamo ad aprire e chiudere cassetti, spegnere interruttori, sbattere porte e tirare sciacquoni.

Esilarante, no?

Per noi era il massimo, il momento di condivisione di un intimo rituale giocoso che univa le nostre giovani anime amiche. E ci divertivamo, ridevamo, esultavamo con l’altra se indovinava, ci rammaricavamo se non azzeccava la risposta giusta. Chi vuol essere milionario – il nostro – era uno dei giochi più belli del mondo, perché il premio in palio non era il denaro ma il continuo sancimento di un’alleanza profonda.

Poi è successo che siamo cresciute. Abbiamo ventisette anni, abitiamo in case diverse, l’asilo e le elementari sono lontani e la sera non ci chiamiamo più al telefono di casa che entrambe ricordavamo a memoria – io il suo e lei il mio – per giocare a Chi vuol essere milionario. Anche se certe volte ne abbiamo avuta la tentazione…

Comunque, insieme ridiamo come allora.

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RINGRAZIARE DESIDERO

Questo è il titolo di una poesia di Mariangela Gualtieri. Solo di recente, poi, ho scoperto che traeva origine da Poesia dei doni di Jorge Luis Borges.

https://www.youtube.com/watch?v=tT63e-S8V9A

È un testo in cui mi imbattei in un momento in cui ne avevo bisogno, perché certe cose arrivano perché tu possa commuoverti. Nel senso etimologico del termine. Perciò, tempo dopo feci una riscrittura della poesia, la sentivo mia a tal punto…

– In quest’ora della sera
da questo punto del mondo

Io ringraziare desidero –

Il misterioso attrarsi di particelle

Azioni e reazioni di corpi

L’abbondanza di esseri
che abitano questo universo unico

Ringraziare desidero

per l’Amore che ci avvicina all’altro
dentro di noi

Per l’agrume e il riso
e per i semi
Per l’arroganza dell’edera che con tenacia
si fa strada da sola

Per l’euforia che dà l’amicizia

L’aria frizzante che porta


Per mia Madre
Per mio Padre

per i loro cordoni ombelicali

Per le parole
che a volte sono quelle giuste e riempiono

Io ringraziare desidero

Per le idee degli altri di cui mi innamoro

Per le mie
di cui mi nutro

Per il profumo di casa
che cela la lavanda


Per l’acqua
la sua materna accoglienza
Per l’incanto primitivo del fuoco

E per il vento che, incoerente, scompiglia la neve e i capelli

Io ringraziare desidero

Perché esistono gli animali

I loro sguardi


Per Noi
Per Te

Per quando siamo mediocri e immensi

Per quando siamo riconoscenti e liberi

Per il sonno, per il sogno

Per l’arte, i libri
la montagna
Che ci mettono in contatto con noi stessi

e col Tutto

Per i seni delle nonne
Per le braccia dei nonni
Per i neonati e le loro minuscole mani

Per il caos
che mi esplode dentro
quando amo con tutta me stessa

Quando scopro il male del mondo

e non posso farci niente

Io ringraziare desidero

Per il fatto di avere un Fratello
con cui essere esploratrice
Per le persone fragili, genuine, trasparenti

Per quelle distanti, inafferrabili, complesse

Per l’antico gioco del teatro, quando ancora è capace
di commuovere i sensi


Per la musica

la sua capacità di raccontare l’anima

Per il pelo del mio cane
il suo calore vivo

Per la noia
con la sua pretesa di qualcosa

Per l’immaginazione, le sue possibilità

Per le vie d’uscita
I colori, i profumi e i sapori

Per la clorofilla
Per Madre Terra

Io ringraziare desidero

Per il viso degli altri

le loro cicatrici

Per le battaglie che ognuno affronta con forza e in segreto

Per chi è capace di farmi ridere a crepapelle
con le lacrime agli occhi
Per chi è com’è, e basta

Per quando ci si abbraccia
ci si dà calore
Per quando siamo vivi ed entusiasti

Per l’attenzione
che gli altri mi riservano
perché la mia anima ne è affamata

Per i miei maestri
soprattutto coloro
che lo sono stati
senza saperlo

Per le persone che
hanno abbracciato quell’albero prima
e dopo di me
Per la Luna
la sua costanza

Per le tavole apparecchiate

il cibo
e il gusto buono delle cose

Per quello stare bene

tra altri che apprezzano


Per l’olio e il brontolio di stomaco

E ancora
per la grandezza dell’amicizia

quando si ride per motivi stupidi e si è complici


Per le carezze
il tormento
Per la passione
il dolore
il sesso
e la loro sacralità

Per l’utopia la gioia l’ubriachezza

Per le intuizioni geniali
che rimangono nel vuoto


Per gli antenati
che rendono care le nostre radici

Io ringraziare desidero

Per il corpo
Per il dono che abbiamo
di poterlo trattare
come Tempio


Per l’autoironia
Per chi non è indifferente alla natura

Per chi non è in grado di spiegarsi se non attraverso la propria arte

Per il cinema
la sua forza travolgente

Per il silenzio
e il mormorio dell’anima che nasconde
Per il silenzio
e chi è capace di starci

Per le piante
la loro saggia conoscenza del sole

per la loro dipendenza dalla pioggia

Ringraziare desidero

Per la parte istintuale e selvaggia

Per i brividi
La commozione

Le cose sentite di pancia

Per la bellezza del dubbio
che predispone l’anima alla ricerca
e la allena
al sacro fallimento

Per le stelle, il sale, le stagioni

Per la diversità degli uomini

Per il Bene
Per il Male

Ringraziare desidero per essere qui

Adesso
Per poter scrivere

Per poter sentire

Per poter amare

Ringraziare desidero
per le farfalle nello stomaco che mi fanno sentire viva
Per la Morte
che è bella
anche grazie a chi
la rende un luogo accogliente

-Per il fatto che questa poesia è inesauribile

cambia secondo gli uomini
e non arriverà mai all’ultimo verso-

Immagine in evidenza di @Poeticamenteflor

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QUESTO GIORNO QUI

ore 00:00 di questo giorno qui

Cosa beviamo?

Mettiti comod*

Cosa bevi tu, cosa ti piace bere?

Magari pensavi di passare diversamente questi minuti qui di questo giorno qui, ma se sei davanti a me c’è un motivo e dopotutto ti aspettavo. A partire dal fatto che abbiamo entrambi due occhi, un naso e una bocca – lo vedi? – ho tante ragioni per chiacchierare con te e tu con me. Mi segui?

Quindi, cosa bevi?

Bisogna bere qualcosa in questo giorno qui, e non perché sia una consuetudine, un’usanza, non per buttare giù le amarezze e alle spalle gli obiettivi non raggiunti; io domattina mi sveglierò e ci saranno ancora i miei carillon, i miei quadri e il mio mangia-domande. Ma dobbiamo brindare, perché io e te stiamo per fare un baratto. Dobbiamo celebrarlo. E poi per essere conviviali, che ne abbiamo bisogno in questo giorno qui di quest’anno qui. Questo giorno qui in cui ci diciamo: lasciamo alle spalle l’anno passato. La senti l’aria di rinascita? Com’è che hai deciso di rinascere, tu? Hai rivoltato la casa hai buttato le cose hai stilato i buoni propositi?

Ti dirò una cosa: è un’illusione.

Cin. 

É un’illusione, questa storia dei trecento sessantacinque giorni. Una convenzione, convenzione ti piace di più? Una convenzione in cui ci perdiamo… Però ti vedo annoiat* . Non ti rubo tanto tempo eh, che poi ‘rubare il tempo’…mica è tuo…mica è…ti piace qui? Ho sistemato un po’, ma mica per questo giorno qui, per mettere te a tuo agio. Ti da fastidio l’incenso? Se sì lo spengo. E le candele? 

Allora certo, questo baratto, che poi se no farnetico. Funziona così: quando ci saluteremo io ti avrò dato una risposta, ma tu devi fare una cosa per me. Devi lasciarmi una domanda. Una domanda qualsiasi ma che sia tua, non mia, non di un altro, tua. Lo vedi il mangia-domande? Perciò pensaci, perché se sei arrivat* qui devi lasciarmene una; ed è la cosa più rivoluzionaria che tu possa fare in questo giorno qui, lasciarmi la tua domanda. Una sola. Una qualsiasi. Una che ti frulla nel cervello da sempre. Una che non mi riguarda. Una che pensi possa interessarmi. Una che ti viene in mente adesso, in questi secondi qui di questo giorno qui. Sarai mica arrivat* senza domande, alla fine di un anno del genere come questo qui?

Cin. Di nuovo. Devi battere sul tavolo altrimenti non vale.

Però devi sapere una cosa. Quando mi lascerai la domanda, sarà mia per sempre, e tu te ne dimenticherai, per sempre. Quella domanda non si presenterà mai più al tuo cuore. In cambio, però, riceverai una risposta importante. Importantissima.

Cin. Buon questo giorno qui. 

Comincia tu, altrimenti non vale.

Fidati, questo giorno qui è perfetto per un simile baratto.

Ti ascolto. 

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LE CORNACCHIE RIDONO

Le puoi trovare il pomeriggio, all’imbrunire, appollaiate sul ramo che si sono scelte. Stanno lì per ore, a osservare la gente che passa ma più che altro a ridere a crepapelle tra loro. 

Le cornacchie in questione sono tre. 

Una ha i capelli rosso fuoco e una piega anni ’70, indossa un maglioncino leopardato e un paio di orecchini a clip molto vistosi. Ha la risata da fumatrice incallita. Potrebbe essere perfino bella, se solo non aprisse la bocca e mostrasse un accozzaglia di denti marroni messi lì per caso. La seconda, ossuta e spigolosa, i capelli neri e finissimi, è sempre piegata su se stessa dalle risa, ha un paio di occhiali tondi che le occupano tutto il viso, le unghie lunghe – troppo – smaltate accuratamente di fucsia. Poi c’è la terza, la più corpulenta tra le tre e anche la più anziana, è leggermente incurvata e pende verso sinistra, porta una lunga giacca di pelle nera e degli stivali lucidi categoricamente neri. Qualcuno l’ha vista provare a volare e dice che non ne è più in grado. Le cornacchie, seppur con le loro differenze, hanno una caratteristica comune: i minuscoli occhi neri. A volte si ostinano a osservare qualcuno tanto da fargli sentire il loro sguardo addosso; sembra che lo facciano per il puro gusto della pressione psicologica. Poi riprendono a ridere tra loro e dimenano le ali come se nessuno intorno desiderasse intrattenere una conversazione o passeggiare in silenzio senza doverle sentire gracchiare. 

Le risate si acquietano per qualche istante, con qualche strascico e schiaritura di gola. Le cornacchie si dissetano e si cibano in silenzio, stirando le zampe sotto il tavolo.

La cornacchia rossa manda la testa all’indietro per bere fino all’ultimo goccio il suo caffelatte, tira fuori una sigaretta dal pacchetto – probabilmente la decima da quando si sono appollaiate – mentre la cornacchia dalle unghie smaltate pare riprendere un discorso importantissimo; tutte si avvicinano verso il centro del tavolo, acquattandosi, per dirsi meglio qualcosa che fa scoppiare la cornacchia fumatrice in una fragorosa risata con cui si spezza il fumo in gola, sputandolo con dei colpi di tosse soffocati.

Arriva un punto in cui ridono talmente forte che diventa incontenibile il desiderio di conoscere il motivo di tanta ilarità.

Gira voce che le cornacchie siano tre zitelle pazze e che si raccontino continuamente la stessa storia, per la quale ridono ogni volta come fosse la prima. Altri pensano che le loro risate siano dovute a scambi di battute sconce e volgari, perché le cornacchie, si sa, pensano solo al sesso. Qualcuno poi ha detto che le tre vivano insieme, in una casa sull’albero, dove fanno magie e incantesimi e che s’incontrino fuori per scegliere le proprie vittime. 

La verità è che nessuno sa perché le cornacchie si divertano tanto tra loro.

Tutti ne sentono le fragorose risate, nessuno ne ode davvero i discorsi.  

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DOVE SONO, SE NESSUNO MI GUARDA?

Oggi condivido, senza aggiungere molto, l’articolo di Lea Barletti pubblicato su TeatroeCritica il 3 Novembre 2020.

Ci sono riflessioni che, in un momento come questo, meritano di essere condivise il più possibile.

Da leggere!

(…) la disincarnazione dello sguardo, attraverso un progressivo rosicchiamento, smangiucchiamento, del corpo e dei suoi spazi di movimento, spazi dove esercitare la sua funzione (presente!) di medium di ciò che si vede e dell’esperienza in genere, è un processo in atto (perché lo è, in atto), e però in atto già da diverso tempo. Questo processo, in atto, lo subiamo, lo avvalliamo, lo cerchiamo, lo creiamo e ne siamo complici, più o meno (più o meno) consapevolmente e più o meno (più o meno) senza battere ciglio, da diversi anni. (…)

(…) Quello che appare, o almeno mi è apparso, attraverso la mia personalissima crepa, stamattina, mentre impastavo il pane, è che è da molto tempo che ci stiamo, e piuttosto docilmente, trasformando in sguardi senza corpo e in corpi senza sguardo.

Fuori casa: in metropolitana, sui mezzi e negli spazi pubblici, per strada (ma non solo): corpi senza sguardo, ripiegato, questo, quasi costantemente su un qualche dispositivo digitale, smartphone, tablet, pc. Non guardiamo, o guardiamo poco, distrattamente, di sfuggita… (presente?).
A casa: “in privato”, e in uno spazio privato. Sguardi senza corpo, a fruire di arte, cultura, intrattenimento, istruzione, sempre attraverso un qualche dispositivo (presente?). A parlarci, a volte anche, e persino, ad amarci, senza più il corpo e spesso senza più nemmeno la voce, ultima messaggera del corpo. Restano, certo, le dita, che furiosamente digitano (…)

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LA VECCHIA

…Stavo rientrando da questa cena un po’ sopra le righe…avevo i piedi stanchi per i tacchi e sentivo di essere andata oltre con l’alcol ma è stato così bello che andava bene. 

Tu sai che non prendo i mezzi, preferisco farmela a piedi. Mentre cammino però mi rendo conto che sono le undici meno dieci e penso merda il coprifuoco, sono a tipo tre chilometri da casa, perciò aumento il passo e rifletto su come fare più in fretta. A me questa faccenda…non so a te, ma a me questa faccenda ha azzerato il cervello e ora è tarato con queste nuove modalità. Comunque stavo ragionando sul togliermi i tacchi o meno, che magari avrei fatto più in fretta, quando sento qualcuno che mi chiama, una voce di donna. Quando mi sono voltata ho pensato che avevo decisamente esagerato con l’alcol perché sulla strada si è accostata una Bugatti Type 35B, ce l’hai presente? Io perché l’ho cercata. E al volante una signora…cioè…una vecchia. Per quello che potevo vedere i capelli grigi le arrivavano oltre il seno, che era completamente svuotato e abbandonato su un ventre davvero piatto, perché devi immaginare una vecchia molto, molto minuta. Addosso aveva una camicia da notte, di quelle semplici color crema, a maniche corte, la pelle flaccida e rugosa che le pendeva dalle braccia sembrava fregarsene del fatto che ieri sera c’erano dieci gradi. Aldilà della presentazione però mi ispirava fiducia, portava una mascherina ricamata all’uncinetto, aveva gli occhi intensi e sorridenti e dopotutto ho un debole per le persone bizzarre. Mi ha detto che poteva darmi un passaggio se ero distante da casa.

Non vedono l’ora di fare le multe a chi non rispetta le regole. Multe salate!


Ha detto. Sono salita sulla Bugatti, che comunque è una macchina assurda, e la vecchia mi ha scrutata da capo a piedi cambiando totalmente espressione, come se si aspettasse una persona diversa. Indossavo un vestito di velluto color petrolio, corto, ma davvero elegante. Ho avuto la sensazione che non le piacesse o non lo approvasse e mi è sorto il dubbio che forse avrei dato meno nell’occhio a piedi che su quella macchina, ma ero stanca e volevo solo tornare a casa, lei è partita in quarta sia con l’auto che con un discorso con cui mi ha bombardata fino all’arrivo. Ha iniziato dicendo Hai idea da dove venga la stoffa del tuo abitino? Va da sé che la mia ubriachezza e la sua sfrontata parlantina hanno trasformato la nostra possibilità di conversazione in campo fertile per un suo monologo senza freni. Io mica dovevo giustificarmi per come ero vestita e quindi lei riparte e dice mi dispiace, mi dispiace di vedere voi giovani così persi e apatici. Così rincoglioniti. Mi dispiace perché vi abbiamo – e sono magnanima parlando al plurale visto che io non ho figli – vi abbiamo riempito la testa di stronzate. Non vi abbiamo insegnato a nutrire la vostra anima ma solo a pensare a mangiare accumulare consumare. A quel punto mi rendo conto che era così eccitata dal suo discorso che stava gesticolando con entrambe le mani senza curarsi minimamente del volante e facendo tintinnare le decine di bracciali con campane e campanelli che portava ai polsi; e la macchina comunque andava dritta per la sua strada e a me stava tornando su quel goccio di sambuca di troppo, che come immaginerai erano poi quattro o cinque bicchieri. Ma era stata una bella serata e se la vecchia non avesse tirato fuori un coltellaccio di lì a poco sarei tornata a casa sana e salva. Ho fatto un sospirone, ho spalancato gli occhi e la bocca per cercare di svegliarmi e per qualche secondo ho avuto la sensazione che il mio udito smettesse di funzionare, perché guardavo le labbra grinzose della vecchia mutare forma sotto le luci e le ombre della strada, si muovevano in modo concitato ma non riuscivo a sentire le sue parole. Ti è mai capitato? Poi l’auto ha svoltato alla curva prima di casa mia ed è stato come se qualcuno mi riattaccasse il filo delle cuffie in cui era appena inciampato per sbaglio, e la vecchia non aveva mai smesso di parlare…Quando leggo quegli articoli, se così si possono chiamare, in cui vi spingono a essere in un certo modo, vi dicono come fare le cose, come mangiare, come arredare le vostre case, cosa fare del vostro fisico, come agghindarvi, con quali prodotti lavarvi il culo, io mi chiedo dov’è la libertà di essere chi cazzo vi pare?!

Boh, alla fine un po’ aveva ragione.

E poi non lo sapete ma vi spiano. Tutti. E con questa cosa in giro adesso…ah! 

Così ha detto: con questa cosa in giro adesso ah! Ed è lì che ho sentito il suo alito alcolico che era poi il mio e ha fermato la macchina davanti casa inchiodando. Prima che scendessi dall’auto ha allungato una mano grinzosa nel sotto-sedile, ha tirato fuori un pacchettino di carta che mi ha messo di fronte al naso e mi ha invitato ad aprirlo. Dentro c’erano delle Morositas…te le ricordi? O almeno mi sembravano. Mi ha detto:

Queste ti fanno vedere le cose come stanno. Tienile, è un regalo per te. 

D’istinto le ho annusate ma non sapevano di niente. Ero totalmente confusa. E no, forse non le volevo le Morositas che mi avrebbero mostrato la realtà dei fatti. Allora ho gentilmente rifiutato dicendo che ero a posto, ho preso le chiavi dalla borsa, l’ho ringraziata e sono scesa dalla macchina. Erano le undici e due minuti. Sono entrata in casa levandomi la mascherina, sono andata a lavarmi le mani e mi sono buttata sul letto, esausta, con il vestito e i tacchi addosso. Stamattina dopo essermi svegliata ho rimesso insieme i pezzi ripensando alla vecchia, alle cose che mi aveva detto, che non erano del tutto sbagliate ma che comunque erano uscite dalla bocca di una vecchia matta che guidava una Bugatti del 1927. Da cui io avevo accettato un passaggio.

Mi sono levata le scarpe e mentre facevo questa cosa ho realizzato che in realtà non le avevo mai indicato la strada di casa mia e lei non me l’aveva mai chiesta.

E poi, assurdo…ero convinta di averle rifiutate…e guarda cos’ho in borsa. 

Immagine in evidenza di Dario Faraon

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Outside the window

– Le avventure di Beatrice –

Beatrice era in camera sua, seduta davanti alla scrivania con lo sguardo fisso oltre la finestra; stava gustando uno yogurt guarnito con miele e noci – ne andava matta – persa in un ragionamento non proprio da bambina. Pensava alla discussione che avevano avuto i suoi genitori la sera prima, in cucina, dopo aver consumato dei deliziosi gnocchi alla romana; il che le sembrava già un sacrilegio, rovinare il gusto di una cena così buona per un dissapore. Non ricordava esattamente cosa avesse fatto scattare la scintilla che aveva poi acceso il litigio, ma era sicura che i suoi genitori non si trovassero d’accordo sul considerare amici o meno determinate persone; non raggiungevano un punto d’incontro perché alla base c’erano due concezioni dell’affetto e dell’amicizia completamente – o quasi – diverse. 

Questo stava pensando Beatrice. 

E non si capacitava di come sua madre potesse determinare la profondità di una relazione in base a quante volte l’altra persona l’avesse invitata a casa sua; e allo stesso modo trovava assurdo che suo padre considerasse semplici conoscenti i componenti di una famiglia con cui trascorrevano perfino le vacanze insieme. Masticò una noce affogata al miele e d’un tratto un bagliore nel cielo catturò la sua attenzione. Anzi, più che altro un’ombra. Beatrice rimase a bocca semiaperta, incredula per ciò a cui stava assistendo. Attraverso la finestra vide il giorno diventare notte tutto d’un tratto. Una notte di luna piena e del blu più magico che si fosse mai visto, in cui si muovevano una miriade di lucciole e stelle comete che, come impazzite, si davano il cambio a intermittenza nell’universo e fino ad arrivare al giardino della sua casa, come in un gioco di danze frenetiche. Beatrice inghiottì il suo spuntino e decise di salire sulla scrivania per poter appiccicare il naso al vetro e continuare a guardare. Mise prima un piede sul tavolo – sempre incantata – e improvvisamente trasalì, perché nel bel mezzo della notte si aprì un varco come fosse una cerniera, dal quale uscì un gigante luminoso che richiuse la zip alle sue spalle. Era fatto di migliaia e migliaia di comete e lucciole – tutte ammassate tra loro a farlo risplendere – si stirò come se si fosse risvegliato da un sonno profondo, sbadigliando profondamente ed espirando altrettante stelle e lucciole. Beatrice si affrettò a tirare su l’altro piede, l’emozione le fece urtare il bicchiere con lo yogurt che cadde a terra e sua madre, dalla cucina, le strillò:

Cos’hai combinato?!

La bimba ebbe l’impressione che il grido spezzasse il silenzio della notte e che il gigante, le lucciole e le comete rallentassero la propria corsa per un momento; non rispose, aspettò di sentire la mamma passare ad altro, come sempre faceva quando era impegnata e lei combinava qualcosa. Così accadde, il gigante luminoso avanzò lentamente in direzione della terra e i suoi passi lasciavano delle scie di luce che evaporavano nell’aria; Beatrice si alzò finalmente in piedi sulla scrivania e pensò di aprire la finestra: voleva chiamarlo, farlo avvicinare, parlarci. Ma quando la bambina appoggiò le dita sulla maniglia un gruppo di comete e lucciole – saranno state un centinaio – si avvicinarono al vetro e sussurrarono in coro una frase:

“Se aprirai scompariremo…”

Non poteva credere ai propri occhi e alle proprie orecchie. Se l’era immaginato? Quegli esseri luminosi potevano parlare? Il gigante stava prendendo un’altra direzione, lo stomaco le si contorceva all’idea di lasciarlo andare, eppure si sentiva profondamente combattuta per ciò che le era appena stato detto. Ma la curiosità era troppo forte e aprì le ante della finestra.

Si alzò un forte vento e sotto il suo sguardo stupefatto le lucciole e le comete vorticarono in un turbine che le scaraventò verso la bocca del gigante, il quale le inghiottì in un baleno, si voltò, riaprì la cerniera e scomparve.

Di nuovo fu giorno. 

Beatrice rimase immobile per qualche secondo. Dopodiché scese dalla scrivania con molta più facilità con cui era salita, mettendo i piedi a terra posò gli occhi sullo yogurt che aveva fatto cadere.

Pensò ai suoi genitori, al fatto che, sicuramente, non si erano accorti di niente. 

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FRANCO IMBARAZZO

O pere, pane e sott’oli

Franco era davanti all’entrata del supermercato, pronto per una spesa mirata ed etica. 

Ultimamente alcune esperienze lo avevano messo di fronte al fatto che non solo la sua dieta fosse  sbagliata, ma soprattutto che faceva del male al pianeta comprando ciò che comprava. Consapevolezza che l’aveva visto affaccendato in una serie di ricerche e che l’aveva condotto a ripensare alle scelte della sua prossima spesa; evento che si sarebbe verificato di lì a un passo. Franco, che ragionava sempre per esclusione – meccanismo che gli facilitava apparentemente la vita – aveva scritto su un foglio stropicciato la lista delle cose che NON avrebbe assolutamente dovuto comprare. Lo aprì e lesse velocemente.

NO:

Plastica

Prodotti che vengono da lontano

Latticini

Formaggio (che per Franco non rientra nei latticini)

Gorgonzola (che per Franco non rientra nei formaggi propriamente detti)

Uova

Carne 

Wurstel (che per Franco non rientrano nella carne, ma come dargli torto)

Pesce

Cose vegetali in cui c’è dentro latte e uova

Surgelati 

Farine bianche

Zucchero bianco

Sale bianco 

Merendine bianche 

Bottiglie in plastica

Si disse che non avrebbe potuto fare lavoro migliore. Si armò di carrello e guanti e prima di partire meditò un momento. Sentiva che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nella disposizione che quel supermercato aveva in particolare e tutti i supermercati hanno in generale. Sentiva che le sue scelte – e lui stesso – erano obbligati a seguire un percorso. Questo lo frustrava. Lo faceva arrabbiare. 

Perché il caffè è sempre dopo le uova? Chi l’ha deciso?

Pensò che la prossima volta sarebbe stato più drastico, sarebbe andato al mercato, ma ormai si trovava lì e non poteva tornare indietro. Fu tentato per un attimo di cominciare dal lato opposto, dove ci sono le acque e i surgelati. Così, per spirito rivoluzionario. Ma si rese subito conto che si sarebbe ritrovato in terra vietata, perciò tranquillamente poteva cominciare da dove volevano loro. Le buste erano biodegradabili e fin qui tutto bene, ma passando in rassegna la verdura – che Franco comunque non amava – si rese conto che pochi prodotti provenivano dall’Italia, o da relativamente vicino, così come per la frutta. Franco però amava le banane. Proprio le banane, che il posto più vicino da dove possono arrivare è il Paraguay.  Il suo sguardo cadde su una confezione di mele del Trentino, che però erano imbustate in un cesto di plastica e avvolte da plastica. Limoni? Dentro una rete di plastica. Avocado? Dall’Equador, singolarmente imbustati in plastica. Poi finalmente…delle pere della Valle d’Aosta sfuse. Vista l’impossibilità di comprare altra frutta, riempì la busta di un chilo. 

Franco guardò nel suo carrello. Era al supermercato da un quarto d’ora e aveva scelto un chilo di pere, ma non si fece buttare giù e proseguì nella sua missione oltrepassando – senza lasciarsi ingannare – tutto il reparto di formaggi, carni, salumi, pesce e alternative veg – veggy – vegane che comunque non erano chi dicevano di essere e comunque non avrebbe mai comprato.

Tutto rientrava nel suo categorico NO. 

Fu in quel momento della spesa che a Franco passò per la testa – per solo un secondo – che avrebbe dovuto scrivere le cose di cui aveva bisogno e non il contrario. Ma era un uomo troppo orgoglioso per accettare la fallibilità dei suoi ragionamenti per esclusione. Perciò riprese in mano la lista e proseguì con la spesa. Uova no…yogurt no…burro no…pizza e focaccia confezionata in buste di plastica no…

IL PANE. 

Franco non poteva fare a meno del pane. Si avvicinò al banco panetteria e chiese un filone di pasta madre integrale biologico con semi. Controllò che venisse confezionato solo con la carta, sorrise e aggiunse questo mezzo chilo di pane al suo chilo di pere. Si sentiva un po’ più soddisfatto. Il commesso gli chiese se gli servisse altro…e lui si trovò in sincero imbarazzo. Andava matto per le olive e i pomodorini secchi e sapeva che quelli del banco erano migliori. Ma si ostinavano a consegnarli in queste vaschette di plastica dura su cui c’era scritto 100% plastica riciclabile, il che voleva dire trattarlo proprio per coglione, pensò Franco. Perciò ringraziò rifiutando l’offerta e dirigendosi verso il reparto sottovuoti, sott’oli e sott’aceti pensando con diletto che avrebbe potuto sbizzarrirsi. Dopotutto per quei prodotti non c’era pericolo, bastava controllare la provenienza e comprare le confezioni in vetro. Quando finì con questo reparto aveva aggiunto alla spesa delle olive nere e verdi in salamoia, dei pomodorini secchi prezzati ben cinque euro e quaranta e un misto di verdure sott’olio. Li guardò e guardò i loro coperchi. Plastica. Decise consapevolmente di fare finta di niente, pensò che avrebbe potuto condirci il riso, con le verdure, ma non esistevano confezioni che non contemplassero altra plastica.

Franco era stanco. Tutto questo essere etico lo stava rendendo nervoso e gli stava rubando tempo. Si disse che, per un pacco di riso, non sarebbe stata una persona peggiore e soprattutto il mondo non sarebbe esploso. Scelse del riso qualsiasi, avvilito, mise il pacco nel carrello e proseguì. Mentre camminava però, guardò la spesa delle altre persone…uno due tre quattro cinque…nessuno sembrava aver scritto una lista ad esclusione come lui, che si sentì profondamente in colpa per il fatto di aver pensato come chiunque altro: 

Il mio acquisto non farà la differenza

Non poteva accettarlo. Era o non era un uomo nuovo?! Tornò indietro e rimise giù il pacco di riso, facendo sempre finta di niente con i sott’oli, che con la sua tecnica, aveva escluso dalle proprie colpe. Fece un respiro profondo, guardò la sua lista: la stava rispettando. A quel punto però iniziava a essere tardi, non si poteva mica passare la vita dentro i supermercati; così decise che per questa prima volta poteva andare bene e si diresse verso la cassa con la busta che aveva portato da casa. Quando finì di pagare guardò la sua spesa.

Cosa avrebbe potuto preparare adesso, con un chilo di pere, del pane e alcuni sott’oli?

Si sentì profondamente stupido. Una grande fatica per cosa? Per rimetterci, per rimanere a stomaco vuoto e con l’amarezza di un mondo che sta andando a rotoli. Franco si sentì lì lì per scoppiare a piangere. Sentiva che i suoi sforzi non erano valsi a nulla, che le persone sarebbero rimaste uguali, il mondo si sarebbe ricoperto di plastica e le banane non sarebbero mai arrivate dalla Sardegna (il che dopotutto era plausibile). Quando uscì dal supermercato, però, successe una cosa straordinaria. Appena messo piede fuori, la sua afflizione fu sovrastata dal clamore di un’infinità di gente che prese ad applaudire. Erano tutti lì per lui, tanti quanto per una manifestazione, tenevano dei cartelli con scritto Franco Imbarazzo sei tutti noi. 

Non poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie, gli tremavano le gambe e, per la prima volta, il suo nome gli risuonò con accezione positiva, quando per l’emozione di una tale festa si ritrovò completamente arrossato – e ammaliato – di una sincera vergogna. Alcune persone gli tolsero la busta dalle mani e la alzarono in aria in segno di gloria e vittoria, gli altri esultarono eccitati. Qualcuno prese la mano di Franco portandola anch’essa verso il cielo e un boato di approvazione si alzò davanti agli occhi increduli di un uomo che non poteva sentirsi più felice nell’aver comprato delle pere del pane e dei sott’oli. 

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SUPPLì

Oggi ho ascoltato la brevissima conversazione tra un Lui e una Lei con due figlie a fianco.

Diciamo che è stato inevitabile perché le nostre auto erano vicine e tutti stavamo entrando in macchina. Diciamo che ho deliziosamente origliato uno scambio di battute che ho trovato estremamente poetico; per la sua straordinaria e banale semplicità, e per la lezione immediata che mi ha restituito.

Una volta qualcuno mi ha detto che un fatto poetico è un regalo che ci viene donato solo se lo permettiamo a noi stessi.

Qualcuno mi ha detto che scrivere “una volta qualcuno mi ha detto” è molto più accativante di dire che una cosa l’hai pensata tu e basta.

Sta di fatto che ascoltare questa conversazione è stato un po’ come ascoltare il mio sé superiore recitare la frase: la differenza sta nel modo in cui si dicono le cose.

E’ una consapevolezza importante, mica ci do peso da sempre. Ed è bello vedere come le proprie e le altrui reazioni si modifichino in base a come parliamo, a come poniamo una questione, a come rispondiamo a un atteggiamento…

LEI: Papà…mamma c’ha na proposta ‘ndecente.

(Silenzio)

LEI: C’ho na voja de supplì…

(Bambine urlanti in sottofondo)

LEI: Ma se li andiamo a prende?

(Le bambine entrano in macchina)

LUI: Però ce potevi annà prima mentre stavamo a aspettà? Te facevi na passeggiata e li prennevi, adesso me tocca fermamme cor casino, stamo tutti in macchina, cioè dai!

LEI: Va beh, non c’è problema…sarà per la prossima.

(Salgono in macchina)

LUI: No…vabbeh dai…ce mettemo cinque minuti de più…’nnamo.

FINE

Immagine in evidenza di Francesco Panatta

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Io so chi sono

Qualche giorno fa ho compiuto ventisette anni. 

Ho pensato che sarebbe stato carino scrivere una di quelle cose poetiche in cui si parla a se stessi, magari in terza persona, raccontandosi ciò che si è imparato fino adesso e bla bla bla. 

Poi non mi è venuta la benché minima ispirazione, non ne ho vista neanche una lontana ombra. Tutto assolato, con le cicale o i grilli, che mi dimentico sempre chi canta di giorno e chi di notte. 

Quindi ho deciso di accettare la mia reazione, so che ogni sensazione necessita del proprio tempo per poter essere nominata, razionalizzata, scritta.

Perciò sticazzi della stima dei miei ventisette anni, ho pensato.

E una di queste sere mi sono imbattuta in un cortometraggio meraviglioso, che parla da solo.  

Io so chi sono – Simone Massi

Immagine in evidenza: Simone Massi – Tengo la posizione

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Mi capita

Ci sono istanti che portano addosso

l’euforia di un’estate adolescente

Una qualsiasi, una precisa

E come vento trasportano

l’odore delle cose passate

I gusti, i luoghi vissuti

quel pozzo lontano, quel tronco d’ulivo

I minuscoli segreti che mi sono sussurrata

a labbra strette

per non farmi sentire

E poi

con la musica mi capita di 

esplorare con i sensi l’emozione

di avere una certezza

Una sola

E la accarezzo e la gusto e la stringo

Non la lascio appassire rimpianto

Mi capita di pensare che io…

Io ho bisogno di creare 

Che per farlo ho bisogno di muovermi

di camminare di correre di contemplare

disegni di nuvole e paesaggi

Fotografare con la mente

un moto immobile, che mi metta in moto 

le fantasie, i desideri colanti di passione…

Maledizione alla passione!

Mi ucciderà

Benedizione alla passione

Mi salverà.

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L’ULTIMO BAGNO

Sei di fronte al mare.

All’oceano, se preferisci.

Hai tempo dall’alba al tramonto per poterti immergere, nessun limite per rimanere in acqua ma devi scegliere un solo momento della giornata per farlo.

Un bagno, un giro, un andata e un ritorno al punto di partenza, il tuo asciugamano.

Lo sai come cambia il mare durante lo scorrere di una giornata?

Ti accoglie in modo differente in base all’ora che scegli.

Fai che questo è il tuo ultimo bagno.

Quando ti butti?

Illustrazione in evidenza di @AlissaLevy

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RESPIRA

Respira.

Devi ancora imparare a farlo.

Quando respiri non pensare a niente. Anzi sì, pensa al fatto che stai respirando e nient’altro. Non trattenere il fiato.

Quando dormi vai in apnea?

Non lo so, dormo.

Non devi dormire. Riposa, sì, almeno sette ore al giorno ma non dormire, poi perdi l’ispirazione. Devi solo inspirare ed espirare, pensa a quello. Prenditi il tuo tempo, non pensare a niente.

Però a una certa alzati, che se perdi tempo poi ti guardi allo specchio e pensi che neanche sai respirare bene, che hai sprecato il tuo tempo, che non sai come funziona il diaframma. Lo sai come funziona?

No.

E allora studialo.

Devi studiare, ti informi abbastanza? Li leggi i giornali? Non guardare la tv lì c’è tutta merda. Interessati, leggi per farti un’opinione, guarda i video shock. Però non troppo che poi ti fa male il mondo. Sei capace? Studia che la cultura è tutto, però devi saper fare anche delle cose manuali, eh. Non è vero non è più così, devi solo essere smart e saper farti personal branding. Vuoi lavorare?

Guarda che la coda comincia da lì.

Studia in Italia per andare all’estero, studia all’estero per tornare in Italia. Rimani all’estero che qui non c’è più niente da fare, oppure no rimani qui e cambiamo le cose, dài. Non ci pensare adesso, organizzati la giornata, scandisci il tuo tempo, occupalo. Però non schematizzare troppo, che se poi pianifichi senza rispettare ti frustri, deludi te stesso. Non deluderti, dài, però inciampa qualche volta, fatti male altrimenti non cresci. Non lasciare le cose a metà, fanne una alla volta piuttosto, con metodo.

Spritz Aperol o Campari?

E lasciati andare. Stupisciti, fai cose che non pensavi possibili. Stai nel presente, ma abbi degli obiettivi. Anzi no, non farlo è peggio, fai che ti metti a fare la prima cosa che ti viene in mente. Fai che chiedi ancora i soldi ai tuoi genitori. Fai che ti metti in proprio. Fai che la smetti di farti domande.

Lo sai cosa vuoi fare da grande ora che sei grande?

È ora che te lo domandi.

Non pensare. Però rifletti anche, che sei fortunato. Guarda che c’è chi sta peggio di te, sempre, quindi cosa ti lamenti? Guarda che c’è chi sta meglio di te, sempre. Secondo te se lo merita?

Ma fatti i cazzi tuoi che campi cent’anni.

Però abbi degli agganci, delle conoscenze.

E poi tu cosa meriti?

Meriti di sapere dove sta il diaframma.

Quindi respira. Lavora. Guida. Fai la spesa. Fai un viaggio lontano per ‘ritrovare te stesso’. Torna indietro prima di tornare a essere lo stesso. Sii te stesso, sii coerente. Sì ma poi cambia, sfidati, apriti al mutamento, salta, vola, scoppia.

L’uccellino è vivo o morto?

Tanto lo cambi in base a come rispondo.

Ma datti una tregua ogni tanto, quando riesci dico.

Respira.

*Immagine in evidenza di Francesco Testa

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Je est un autre

Claude Cahun

Immagina di vivere in un mondo dove non ci sono specchi. Il tuo viso lo sogneresti e lo immagineresti come un riflesso esterno di quello che hai dentro di te. E poi, a quarant’anni, qualcuno per la prima volta in vita tua ti presenta uno specchio. Immagina lo sgomento! Vedresti un viso del tutto estraneo. E sapresti con chiarezza quello che ora non riesci a comprendere: tu non sei il tuo viso.”

Milan Kundera, L’immortalità

Sono così.

Un metro e settantacinque per sessantaquattro chilogrammi di peso. Ho i capelli biondo cenere. Il naso a patata e le labbra sottili. Le mie mani sono forti e porto il quarantadue di piede. Sproporzionato per le mie piccole spalle.

Sono così, come mi vedete.

Se intorno a me ci fossero altre cinque, dieci, quindici donne non mi notereste, il mio volto sarebbe l’ultimo che ricordereste.

Sono così come mi vedete, allo stesso modo potreste non vedermi, non sapere della mia esistenza e vivere tranquillamente.


Sono così.

Piuttosto bassa ed esile. Ho una massa di capelli rossi e ricci. Il naso a punta, le labbra carnose. Le mie mani sono troppo piccole, come i piedi. Ho un seno abbondante per la mia statura.

Sono così, come mi vedete.

Se intorno a me ci fossero altre cinque, dieci, quindici donne non mi notereste, il mio volto sarebbe l’ultimo che ricordereste.

Sono così come mi vedete, allo stesso modo potreste non vedermi, non sapere della mia esistenza e vivere tranquillamente.


Sono così.

Non ho segni particolari.

Sono così, come mi vedete.

Se intorno a me ci fossero altre cinque, dieci, quindici donne non mi notereste, il mio volto sarebbe l’ultimo che ricordereste.

Un ritratto banale. Un corpo di cui si ignora la sostanza. Una microscopica particella.

Un numero.

Sono così, come non mi vedete, allo stesso modo potreste vedermi, sapere della mia esistenza.

Sono un sospiro

che passa tra due sguardi

La linfa chiara di un’idea

La ruggine dei rimpianti

Sono forma e contenuto

in mutamento

Luce bianca

Buio 

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AUTOTOMIA

Quando ero piccola giocavo a catturare le lucertole.

Mi divertivo a rincorrerle, farle prigioniere, tenerle ferme e poi infilzarle con un legnetto. Mentre mi impegnavo in questa operazione canticchiavo sottovoce: “Questa é la storia del serpente che vien giù dal monte, per ritrovare la sua coda che ha perso un dì…”

I bambini sanno essere meschini. Non riuscivo a resistere, dopo averla acchiappata guardavo la coda dimenarsi e contorcersi disperatamente in cerca della propria metà, provando una sensazione di potere mista ad un latente senso di colpa, a cui chiaramente non sapevo dare un nome. Era come se pensassi che tutti mi vedevano piccola ma io potevo staccare la coda alle lucertole, mi compiacevo di questo pensiero e allo stesso tempo, in fondo allo stomaco, mi pizzicava l’idea che non avessi alcun diritto di amputare una parte così importante per quel piccolo animale. Alla fine rimanevo comunque lì a osservarla, la coda che si dimenava.

Più avanti qualcuno mi disse che le lucertole la rilasciano volontariamente. Si definisce autotomia ed è un meccanismo di difesa attraverso il quale avviene un’amputazione spontanea che confonde il predatore. È come se la coda si immolasse, lontana dal suo corpo, dando la possibilità al piccolo rettile di scappare. In più, la parte amputata si rigenera.

Ricordo di essermi sentita più piccola di quanto già non fossi.

L’anno del mio undicesimo compleanno era la fine dell’estate e i miei genitori mi avevano regalato una bicicletta nuova, una graziella azzurro pastello. Andavano di moda in quel periodo e i ragazzi si divertivano a rubarle davanti alla chiesa la domenica mattina, mentre i loro ignari proprietari erano a messa. È  buffo pensare che fosse una tra le cose più divertenti al mondo. Pedalavo tra le campagne non lontano da casa, in direzione di un bosco dove ci ritrovavamo con gli amici del cortile a inventarci avventure di ogni tipo; mi stavano aspettando e c’era anche mio fratello, compagno indispensabile di quel tempo insieme. Quel giorno però avevo voglia di stare da sola per un po’, il sole era ancora piuttosto alto e ricordo di aver pensato che non sarebbe stato grave ritardare. A circa un chilometro di distanza si trovavano le vecchie rotaie di un treno commerciale che passava solo alle diciotto e trenta, ogni pomeriggio. Sarei andata lì. Cominciai a pedalare, c’era un’atmosfera bellissima, si portava addosso lo strascico di un’estate ormai giunta al termine; non mi resi conto che iniziavo a correre alla massima velocità sulla strada sterrata, con intorno solo campi d’erba e girasoli rinsecchiti dall’arsura estiva, l’aria afosa ma i colori della bella stagione che rinfrescavano la vista. Pedalavo senza neanche guardare a terra, persa tra i miei pensieri da undicenne. Avevo in mente Coccodrilli di Samuele Bersani, l’avevo sentita in radio forse la mattina stessa – In America lo sai che i coccodrilli vengon fuori dalla doccia – la canticchiavo nella testa. A un certo punto sbucò dal basso di un cespuglio un animale strisciante che si dileguò in un secondo. Frenai di colpo inchiodando, mi soffermai a cercarlo con lo sguardo e lo intravidi per un istante prima che sparisse tra i rovi; aveva la coda lunga e sembrava ricoperto di squame, un misto tra un’iguana e una lucertola. Mi ricordai che mio fratello ne aveva vista una simile insieme a mio padre e mentre riprendevo il mio percorso mi domandai se anche lei rilasciasse la coda come difesa, se avesse il potere dell’autotomia. Stavo andando di nuovo velocissima e arrivai al passaggio a livello tutta sudata. La sbarra era abbassata e mi fermai per bere un po’ d’acqua, quando sentii delle voci provenire dalla mia sinistra. A circa cento metri di distanza, sulle rotaie, c’erano tre figure. Erano dei ragazzini che avranno avuto su per giù la mia età, impegnati in un’operazione poco chiara, ridevano e urlavano. Strinsi gli occhi per scoprire chi fossero, magari li conoscevo, cercai di capire meglio cosa stessero facendo ma la luce del tramonto li rendeva poco più che delle ombre; due di loro erano piegati sulle ginocchia, il terzo teneva un piede fermo sopra qualcosa che sembrava muoversi tra i binari, li sentivo sogghignare e a tratti gridare, in preda a un’ eccitata euforia. Non riuscivo a capire cosa stessero dicendo ma mi invase una brutta sensazione e pensai che avrei dovuto raggiungere subito mio fratello e gli altri, che era stata una cattiva idea venire al passaggio a livello, ma rimasi immobile a cavallo della bici, in ascolto. Insieme alle loro voci udii un suono diverso, un lamento forse, poi riconobbi distintamente il latrato disperato di un cane; il ragazzo in piedi lanciò un urlo verso uno dei suoi compagni, sembrava arrabbiato, poi sferrò un calcio all’animale che guaì più forte mentre gli altri due lo tenevano fermo. Mi si strinse lo stomaco. Colta da un moto di coraggio scesi dalla bici e feci qualche passo verso di loro prima di fermarmi, uno alzò lo sguardo e mi fissò per un istante. Si erano accorti di me, avevo la bocca asciutta e sentii il corpo pesante, incollato al suolo. Più avanti, mi pentii di non aver dato retta all’impulso di correre verso l’animale. Sentii il rumore del treno che stava arrivando, mi voltai a guardarlo mentre si mangiava secondo dopo secondo la strada, le travi delle rotaie scomparivano sotto di lui una dietro l’altra. Il macchinista si accorse dei ragazzi e azionò la leva del fischio, il treno correva alla massima velocità. I due inginocchiati, ora li vedevo bene, si accertarono di aver stretto intorno alle zampe del cane delle corde che avevano legato alle rotaie. Tutti e tre fecero un balzo verso sinistra e senza smettere di ridere presero a salutare con la mano in direzione del treno e poi dell’animale. Il macchinista cercò di fermarsi ma andava troppo veloce, da un serbatoio fuoriuscì del liquido per il tentativo di frenata e si alzò una nube di polvere. Sentii il cane guaire e latrare e piangere, lo vidi dimenarsi disperatamente. Poi un colpo secco. Mi voltai di scatto dall’altra parte, chiudendo gli occhi come se avessi appena ricevuto uno schiaffo. Il treno continuò il suo percorso lasciando dietro di sé una folata di vento e l’eco del suo passaggio. Mi girai di nuovo verso i ragazzi, che si erano ammutoliti a guardare la scena e si avvicinarono alle rotaie in direzione di ciò che era rimasto del cane. Non ridevano, non gridavano, non esultavano più. La loro esaltazione era atterrita. Non li vidi bene in faccia ma ebbi l’impressione che tutti e tre avessero un’espressione inebetita, in particolare quello che aveva sferrato il calcio all’animale, che dopo un attimo si piegò in due a vomitare. Gli altri tirarono su da terra le loro biciclette, lo aspettarono e insieme, in silenzio, sparirono dietro la curva nei campi.

C’era una quiete terribile. Tutto era immobile, avevo le gambe molli e un groviglio spesso in gola. La luce del semaforo del passaggio a livello diventò verde, la sbarra si alzò. Fino al giorno dopo non sarebbero passati altri treni. Mi girai verso la mia bicicletta e presi il manubrio tra le mani, non mi passò per la mente neanche per un secondo di andare a vedere i resti del cane. Sentivo ancora i suoi lamenti strapparmi la pelle da sotto il petto. Mi incamminai per raggiungere il bosco dove mi aspettavano ancora mio fratello e gli altri, per distrarmi ripensai alla lucertola-iguana che avevo incontrato all’andata, ma sentivo di nuovo i guaiti del cane e mi arrabbiai perché non era come le lucertole, non avrebbe mai potuto dividersi a metà, ingannare i predatori e scappare, sopravvivere, salvarsi.


Da quel giorno non provai mai più a catturare le lucertole.

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Il mondo è bello perché è Mario

Mario era incazzato.

Aveva messo piede nel bar semplicemente per trovare qualcuno a cui manifestare la propria rabbia e per una frazione di secondo i nostri sguardi si erano incrociati. Ero stata prescelta. Aveva cominciato a parlarmi a raffica mentre ordinava distrattamente un caffè espresso, gesticolava in modo forsennato e per i primi trenta secondi, presa totalmente alla sprovvista, non ho assolutamente capito chi fosse il soggetto del suo racconto né tantomeno quale gesto imperdonabile avesse compiuto. A un certo punto qualche scintilla di razionalità aveva acceso la sua capacità comunicativa e gli aveva dato modo di comporre una frase che recitava: “Possibile che la scelta di essere vegano venga confusa con un’allergia o un’intolleranza?”. Diceva che se avevo tempo mi raccontava tutta la storia perché era veramente arrivato al limite. Io di tempo ne avevo già perso abbastanza e lui intanto stava prendendo una sedia e si accomodava al tavolo con me.

Mario non lo conoscevo. Mai visto in vita mia prima di quell’ episodio.

Sta di fatto che parte a raccontarmi di un tizio, amico del conoscente di un amico con cui era a un pranzo proprio due ore prima di venire al bar, che gli aveva fatto rivoltare il cibo nello stomaco per quanto era ignorante. Tra una chiacchiera e un’altra erano finiti a parlare di ‘fondamentalismo vegano’ e a un certo punto della conversazione lui stesso aveva asserito che c’è dell’esagerazione in giro, come per tutte le cose. “Perfino noi vegani ci siamo stufati, no?” – mi dice complice, includendomi nel gruppo senza darmi il tempo di commentare – ma il punto era un altro, cioè che qualche attimo dopo, questo tale amico del conoscente di un amico, con un velo di compassione negli occhi gli aveva detto: “Ah già, è vero…tu questo non PUOI mangiarlo” parlando di un pasticcio di carne e scatenando chiaramente l’ira di Mario che ribadiva: “Possibile che una scelta di vita venga trattata come una sorta di allergia o di intolleranza?…Non posso? E chi l’ha detto che non potrei mangiarmi otto chili di mortadella e poi dire in giro che sono vegano? Il punto è un altro, mio caro amico che pensi che la mia scelta sia una malattia” – diceva puntandomi il dito contro, come se avessi cambiato partito tutto d’un tratto schierandomi con quel tale “Il punto è che io non VOGLIO mangiarlo. E non credo di dovermi soffermare sull’abissale differenza di significato tra questi due verbi servili e/o modali.” – Mario era evidentemente un uomo colto- “E il fatto che tu ponga la tua stupida domanda in quel modo fa capire che c’è ancora da battere il chiodo su alcuni punti che non sono il surriscaldamento globale, gli allevamenti intensivi e la merda industriale che ingurgitiamo. So che queste cose le conosci.” – Beh, sì, le conoscevo e non avrei voluto, ma non era con me che ce l’aveva – “…il punto è che nell’intonazione della tua frase c’è la stessa presunzione di chi parla con gli anziani come si farebbe con i bambini. Ecco, non so se ho reso l’idea.” L’aveva resa. La stava rendendo a me che non c’entravo assolutamente niente.

“Sì, lo so che lo sai che la carne rossa non dovrebbe mangiarla nessuno. Ma sticazzi. – Sputava fuori dai denti e continuava – Insomma, forse tu dimentichi, caro amico non vegano, che dietro un vegano il 99 per cento delle volte c’è stato un carnivoro, perciò intendiamoci bene, la carne non la mangio perché ho scelto di farlo…” Mario riprendeva fiato, si grattava per un secondo la barba bionda e a questo punto avrei potuto dirgli che avevo capito, afferrato il concetto. Ma lui era un inarrestabile attore protagonista che doveva a tutti i costi chiudere la propria parte: “…non perché qualcuno me l’ha imposto e poi, detto in confidenza…a chi non viene un po’ d’acquolina in bocca quando sente odore di speck o fritto misto? Che Dio mi fulmini se questo non è essere umani! L’uomo e la sua incoerenza…chi ha la consapevolezza di quest’incoerenza è coerente in partenza. E io ci sono sceso a patti. Ma in fondo si sa, il mondo è bello perché é vario! Solo che a una certa non ci saranno più maiali da allevare e pesci da pescare e allora a quel punto non so se questo modo di dire sarà più valido. Allora lì potrai davvero affermare che non posso mangiarlo quel dannato pezzo di carne. Perché non esiste! Non ce n’è più! Ve li siete schiumati tutti, merde!!”

E con questo gran finale Mario si rendeva conto che aveva fatto freddare il caffè, lo scolava tutto in un sorso e usciva dal bar, così com’era entrato.

Incazzato.

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LA SPERANZA è L’ULTIMA A VENIRE

Sorseggio una tisana bollente zenzero e curcuma e penso un pensiero piuttosto banale, cioè che la vita è proprio strana. Strano, ad esempio, sentire di essere troppo concentrati sul dopo, sul poi, sul cosa farò piuttosto che sul momento presente e, d’un tratto, ritrovarsi inevitabilmente a stare solo nel qui e ora, visto che domani…

Domani boh.

Certe filosofie sarebbero fiere di me, che divento personificazione del domani non esiste e ieri è già passato – o qualcosa di simile. – Però non glielo dico che non mi sono elevata spiritualmente ma semplicemente non ho idea di cosa succederà. Come saranno davvero le cose dopo tutto questo? Le persone andranno di nuovo a teatro e al cinema? Che lavoro farò? Ma ci sarà lavoro? Cosa avrò costruito? Come ma sopratutto CHI, sarò fra alcuni anni?

Bevo un sorso di tisana.

Una serie di informazioni di natura ormai pop per il mio cervello – che le ha archiviate da tempo per il medesimo motivo di adesso, ovvero darmi una pacca sulla spalla – risale a galla portandosi dietro un altro pensiero banale ma utile: non è mai troppo tardi. Le informazioni sono le seguenti: J. K. Rowling, la scrittrice di Harry Potter, ha ricevuto tante di quelle porte in faccia prima di essere pubblicata che intanto aveva spento 40 candeline sulla sua torta di compleanno. Storia simile per Marc Pincus, diventato milionario alla stessa età della sopracitata grazie a una compagnia di videogiochi; e moltissimi altri sarebbero da nominare come rimandati più e più volte all’esame di soddisfazione personale oltre che, per alcuni, di immenso successo.

Insomma, per restare in tema frasi banali il tempo paga e nonostante i dubbi che mi turbavano all’inizio la speranza è arrivata, con un po’ di ritardo e con qualche considerazione spicciola ma è arrivata. Così, grazie a un’autocertificazione da me redatta sono stata inserita in quella confortevole lista di individui che, con gli sforzi compiuti fino a un dato momento, con le notti insonni e l’insicurezza costante e, a questo punto, con tutto il resto, raccoglieranno i frutti del proprio lavoro solamente in età adulta avanzata. O adulta avanzata avanzata. O in età anziana.

Quindi posso tranquillamente bere la mia tisana senza curarmi del domani.

Tutt’apposto.


“Un tentativo serio realizzato in modo maldestro”

Stanley Kubrick sul suo primo lungometraggio, Paura e desiderio (1953)
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RADICI

Mi si sta formando in testa un groviglio di edera e muschi.

Non ho chiaro cosa dire né come scegliere i pensieri, che comunque non c’è bisogno di una voce in più, di un’opinione in più.

Ma devo dirlo. A modo mio almeno pensarlo.

Perciò mi sono seduta e sono rimasta ferma ad ascoltarmi e ad ascoltare, per tentare di rimettere insieme i pezzi di qualcosa di cui ho perso i contorni – senza neanche accorgermene – quasi due mesi fa. Per lavare parole su parole accumulate in un cesto e appoggiarle sul tavolo di legno, fuori, come peperoncini al sole. Per asciugarle. Per dar loro nuova linfa.

La mia. Di adesso.

Ho fatto caso alle piccole cose. Quelle che se ne stanno nascoste o almeno sembra. Ho fatto caso agli odori che sono tornati a trovarmi sotto il naso – tirando gli estremi dell’ unto nodo di una busta per l’umido, ho sentito la familiare incrostratura di sabbia che si portava sulle ruote il camper alla fine dell’estate. – Ho fatto caso all’improvvisa sensazione di impotenza verso ciò che accade in ogni abitazione, ogni giorno; al duale meschino presentimento di essere in una condizione fortunata. Ho fatto caso che mi manca correre, anche se perdo il fiato poco dopo. Che normalmente ci sono tante cose a cui non faccio caso.

Mentre ero seduta con l’intento di restare ferma ad ascoltarmi e ad ascoltare ho sognato di tuffarmi da una scogliera alta almeno dieci metri.

Ho fatto caso che l’edera sta mettendo radici più robuste e i muschi stanno diventando ancora più spessi.

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